High Flying Bird
Soderbergh torna a girare con l'Iphone e si muove in piena indipendenza, parla di basket ma pensa al cinema, impegnato da sempre in un 1 vs 1 contro "the game on the top of the game".
Ama il gioco. Segui il gioco. Credi nel gioco. Ma soprattutto rompi il gioco che sta sopra il gioco, il sistema di scambio, interesse, compravendita che soffoca e controlla, pretende e monitora. High Flying Bird è un film sul basket senza il basket, un film in cui anche la parola basketball viene pronunciata al massimo un paio di volte. C’è solo il gioco, the game, e quell’altro gioco di livello superiore rappresentato dall’NBA, entità astratta dalle ricadute concretissime che si è imposta dentro il basket e sopra il basket, ma soprattutto sopra gli atleti. A partire dalle giovani promesse appena uscite dall’università, i rookies, perlopiù afroamericani provenienti dal sottoproletariato metropolitano, ex studenti sopravvissuti grazie a borse di studio o soffocati dal debito scolastico. Ora a un passo dalla carriera professionistica se non fosse per il lockout, lo sciopero generale, il blocco del campionato causato dal mancato accordo tra le parti, tra giocatori e impresari. È un evento raro ma succede, e quando succede si ferma lo sport e si fermano i soldi. Niente partite, niente show, perché ogni performance è controllata dall’NBA, ogni immagine pubblica è proprietà dell’azienda. Difficile per un rookie sentirsi ancora padrone di sé stesso. Che valga forse anche per il mondo del cinema?
Firmata dal giovane Tarell Alvin McCraney, già autore di Moonlight, la sceneggiatura di High Flying Bird è un fuoco di fila di strategie e contrattazioni, uno script parlatissimo e denso che non insegue la ricostruzione complessiva della vicenda ma preferisce una prospettiva più ristretta per mettere in campo una denuncia che ha il sapore della lotta di classe e affonda le sue radici nella storia schiavista e razzista degli Stati Uniti. Al centro del racconto c’è infatti Ray Burke (André Holland) un agente sportivo determinato a risolvere a modo suo il lockout, sfruttando l’enorme potenziale iconico del suo giovane assistito per suggerire un’alternativa al sistema, un ritorno alle origini del gioco e soprattutto alla proprietà di sé stessi. Nelle mani magistrali e ironiche di Steven Soderbergh questo materiale dall’impeto insurrezionale diventa l’occasione per sferrare la stoccata definitiva nei confronti di Hollywood e della sua industria culturale. Guarito dal suo addio al cinema, impegnato da sempre in un 1 vs 1 contro the game on the top of the game, Soderbergh torna a giocare la carta di Unsane in un cortocircuito irresistibile: contro il sistema gira tutto con il suo cellulare, ancora l’Iphone 8, cura fotografia e montaggio, e manda il tutto in distribuzione internazionale su Netflix, dove quelle stesse immagini torneranno a vivere su altri schermi portatili e Iphone, andata e ritorno di un digitale che si smarca dal controllo della tradizionale industria dell’intrattenimento.
Certo, Netflix non è la rivoluzione, o almeno non quella dal basso auspicata dall’identità black di cui è intriso il film, e Soderbergh questo lo sa benissimo, ma comunque ciò non gli vieta di tracciare una direzione, di amplificare il gesto politico, di divertirsi a guardare dal lato il potere affermando comunque la necessità di una rivendicazione economica e identitaria, che passa anzitutto per il corpo e la sua libertà dallo sfruttamento. Per farlo High Flying Bird imbastisce New York come una piccola sinfonia di acciaio e vetro splendente, algide superfici riflettenti che inquadrano, comprimono, intrappolano, dettano il tempo dei tanti dialoghi e accompagnano il farsi del piano di Burke, rivoluzionario sotto l’abito da squalo o viceversa, ma poco importa finché il messaggio – il libro del finale, bellissimo – arriva nelle mani giuste.