Mortdecai
Ennesimo disastro per Johnny Deep, Mortdecai è soprattutto la sineddoche di una Hollywood colpita dalla desertificazione dello star power e incapace di far rivivere i propri codici artistici
Fosse solo per la sceneggiatura di Carlito’s Way, David Koepp è un nome cui si resta inevitabilmente un po’ legati. Penna degli adattamenti spielberghiani Jurassic Park e La guerra dei mondi, è stato uno degli sceneggiatori più influenti della Hollywood anni Novanta. Tre collaborazioni con Brian De Palma, una con Zemeckis per il delizioso La morte ti fa bella, poi Ron Howard, David Fincher, Sam Raimi. Non sorprende a questo punto il salto alla regia, che va a vuoto le prime volte e poi si concretizza in due horror interessanti, Echi perduti e Secret Window, rispettivamente tratti da un romanzo di Richard Matheson e un racconto di Stephen King. Il suo è un nome che fino ai primi anni Duemila usciva fuori almeno un paio di volte all’anno, e spesso per titoli di una certa importanza. Poi il declino, il rallentarsi del ritmo e il diradarsi di titoli di rilievo, alcune regie sbagliate e infine questo Mortdecai, che non solo conferma il trend negativo ma rischia di esserne il punto di arrivo definitivo.
Clamoroso flop di pubblico e critica negli States, Mortdecai è uno di quei film dall’esito imbarazzante per tutti i grandi nomi coinvolti, dal citato Koepp ad una sprecata Gwyneth Paltrow, da un impacciato Ewan McGregor ad un disastroso Johnny Depp. Proprio lui, protagonista ed istrione assoluto della pellicola, porta sulle spalle il peso maggiore del fallimento dell’operazione, l’ennesimo. Altra figura chiave della Hollywood anni Novanta, Depp è giunto da poco a 30 anni di carriera ma sembra sempre più esserne arrivato al capolinea. Stanco e ripetitivo, è soltanto l’ombra ormai dell’ottimo attore che fu in gioventù, quel che ne resta è una mimesi istrionica ed eccessiva ormai intrappolata in una recitazione sopra le righe che in Mortdecai raggiunge il patetico. Spiace dirlo ma il suo lord e mercante d’arte con la passione per le donne, i baffi e i traffici internazionali è soltanto una maschera stanca e molto triste, già limitata in partenza da uno humour inglese di bassa lega, invecchiato malissimo. Mortdecai infatti nasce da una serie di romanzi di Kyril Bonfiglioli, scrittore inglese apparentemente di culto in Inghilterra ma pressoché sconosciuto a livello internazionale, e forse non a torto.
Afflitto da una sceneggiatura pigra (voce narrante onnipresente, passaggi approssimativi in sequenza), da un cast oscillante tra il disastroso e l’impegno fuori posto o sprecato (soprattutto quello di Paul Bettany), e una regia che poco o nulla riesce a fare con i pochi elementi a disposizione, Mortdecai è un film di cui è difficile salvare qualcosa. Tuttavia, piuttosto che soffermarsi sul caso particolare, è più interessante notare come il film sia l’ennesima manifestazione della desertificazione dello star power hollywoodiano, oltre all’emblema dell’incapacità di una certa Hollywood di confrontarsi con la classicità della sua commedia. In questo particolare momento storico, dominato dal punto di vista cinematografico dalle logiche del brand e della ri-narrazione, il vecchio potere della star hollywoodiana sembra essersi perso nel vuoto. Senza una mitologia pregressa, un cult di riferimento da riscrivere, o l’appartenenza ad una crew ormai definita (il gruppo Apatow), oggi non basta più il nome della grande star per portare la gente al cinema. Ma oltre a questo Mortdecai ci dimostra come l’unico orizzonte di successo per la commedia oggi sia appunto quello alla Apatow, di deriva più o meno televisiva (il bacino del Saturday Night Live su tutti). Un approccio brillante alla Blake Edwards, come quello tentato goffamente da Koepp e Depp, pare invece condannato al fallimento, non solo economico ma anzitutto artistico. Mortdecai mima le vesti di un cinema che fu, guarda a Peter Sellers, a Clouseau, ma il risultato è una farsa un po’ triste e un po’ patetica, sineddoche di una Hollywood paradossale, ossessionata dalla riscrittura e dal passato ma incapace di far rivivere efficacemente i propri codici artistici.