Dopo un Evento Speciale al Festival del Cinema di Pesaro nel 2011 dedicato al cinema di Cosimo Terlizzi, i film dell’autore pugliese sono stati presentati di recente a Roma, al Kino e al Nuovo Cinema Aquila. La dimensione in cui Terlizzi si muove ha i confini fecondamente labili e incerti: in essa il documentario perde il suo statuto originario per rinnovarsi attraverso la contaminazione, arrivando al parossismo con un’indagine tanto privata e intima da farsi conturbante (è il caso di Folder) o prendendosi gioco delle regole e dei principi che definiscono la sua stessa identità, con autoironia e fantasia (come accade in Murgia).
Tornare a questo terz’ultimo lavoro del regista, girato nel 2008 sull’altopiano carsico al centro della regione pugliese, significa immergersi in un territorio ibrido e completamente nuovo, tutto dominato da una singolare naïveté, immerso in un’atmosfera spontanea e giocosa, colma di libertà e leggerezza, a tratti surreale. Il film è diviso in tre parti e descrive lo strampalato girovagare del protagonista Pino Malerba attraverso la Murgia – distesa vasta, brulla e ventosa – a bordo di uno scintillante maggiolino verde. Gli esseri umani qui sono presenze solitarie e frastornate (non solo Pino, alto e magrissimo, elegante e un po’ retrò, ma anche la giovane ragazza nera, snella e silenziosa, che lui incontra lungo il viaggio) o completamente fuori luogo (come la donna che compare nell’ultimo episodio, anche voce narrante del film). La vena squisitamente comica che caratterizza il documentario è affidata in gran parte proprio al protagonista maschile e al personaggio/voce narrante interpretato da Anna Rispoli, anche sceneggiatrice del film. Ma l’ironia scaturisce anzitutto dallo scarto che si crea tra l’apparente serietà della voce off (quasi didattica) e la modalità in cui le cose – spesso colte nella casualità del loro accadere e del loro essere – vengono descritte e mostrate. L’indagine sulla flora del luogo è costante e accurata, con tanto di didascalie per informare anche lo spettatore più distratto dei nomi delle piante che la macchina da presa si sofferma ad inquadrare. Ma quella di Terlizzi, si capisce fin dal principio, è un’enciclopedia di scienze naturali piacevolmente anomala. Le musiche di Tom Waits, Madonna e Prokofiev – una colonna sonora di forte impatto – non sono mai state cucite insieme in un tessuto così armonico, fatto di voci e immagini che trovano la ragion d’essere della loro coesistenza proprio nell’esibita divergenza che le caratterizza. Murgia è una poesia, un omaggio sentito e originalissimo a una terra (quella d’origine di Terlizzi, che ora vive in Svizzera) in qualche modo amata e odiata al contempo. E’ un tentativo, pienamente riuscito, di esaltare il fascino muto e selvaggio di un luogo che appare abbandonato e dimenticato, in cui gli animali e le piante, insieme alle rovine di qualche vecchio casolare disabitato, sembrano tutti impegnati in un sordo e ostinato tentativo di resistenza (al vento? al silenzio? all’oblio?).
Quello di Terlizzi (anche autore di splendide fotografie, videoclip, video arte, performance e singolari sculture) è, nel senso vero e proprio del termine, un cinema nuovo. Gli spazi inesplorati che attraversa sono luoghi di confine, interstizi misteriosi tra una forma espressiva e l’altra, dove registri e codici differenti si miscelano e si fondono per originare l’inaspettato e l’insolito. Forte di un’impronta autoriale ben definita, lo stile del regista appare immediatamente riconoscibile, anche quando viene declinato entro dimensioni artistiche diverse che tuttavia presentano sempre una coerenza estetica ben evidente. Murgia, contraddistinto da una potenza visiva particolare, posa sul paesaggio e sull’uomo uno sguardo stupito e incantato, e riesce a tirare fuori da ogni cosa – una roccia, un dirupo, un viso, un muro scrostato, una pianta infestante – la rara e segreta bellezza che palpita dentro di essa.