Primo film ucraino in concorso al Festival di Cannes, dove è stato presentato nel 2010, My Joy di Sergei Loznitsa è una panoramica ferocemente realista – ma al contempo dai risvolti a tratti misteriosamente onirici – della Russia contemporanea e non. Il protagonista Georgy è un camionista che un giorno viene fermato dalla polizia a un posto di blocco. Da quel momento in poi la sua diventa una storia assurda e disperata, popolata da personaggi abbrutiti dalla povertà, dalla guerra e dalla violenza che lo trascineranno in una dimensione dominata solo dalla follia e dalla volontà di sopraffazione.
Al regista non interessano gli snodi del racconto e la consistenza del suo ritmo; la narrazione appare disciolta e segnata da continui salti temporali e simmetrie nascoste. Quello di Lonitsa è uno sguardo che indugia sulle cose con la pazienza di un entomologo, e per questo riesce a restituire dei ritratti precisi ed espressivi delle molte e diverse figure che appaiono nel film anche solo fugacemente (il vecchio che ricorda cosa gli accadde dopo la guerra, la giovanissima prostituta, i poliziotti feroci ed esaltati). Le descrizioni dei luoghi che fanno da sfondo a questo mondo in completo disfacimento sono potenti e incisive: immense campagne verdeggianti e poi coperte di neve, boschi fitti di alberi altissimi, ma anche posti desolati e squallidi.
Nella Russia di Loznitsa, a dispetto di quello che suggerisce un titolo evidentemente sarcastico, non c’è gioia. E’ un racconto, questo, progressivamente sempre più agghiacciante della perdita di se stessi (come dimostra l’involuzione, anche fisica, subita dal protagonista), dell’annullamento del sé di fronte a un universo incomprensibilmente e totalmente assoggettato alle peggiori pulsioni che agitano la mente umana. La gratuità della violenza, in questo senso, colpisce ancor più della violenza in sé.
L’eccezionale fotografia di Oleg Mutu (che ha lavorato anche con il regista rumeno Cristian Mungiu in 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni e Oltre le colline) immerge le scene in un’atmosfera cristallina e limpida, che esalta la malinconica bellezza dei paesaggi e accentua il degrado e la sofferenza stampata sui volti delle persone. Loznitsa, che ha alle spalle diversi documentari, punta soprattutto ad enfatizzare la sensazione di realismo e naturalezza che caratterizza i brani filmici, cuciti insieme da un filo narrativo incerto e sfaldato.
Sembra che nella visione del regista non ci siano vie di fuga possibili, nessuna speranza di cambiamento né di redenzione; al contrario le buone azioni, entro questo tragico orizzonte, non vengono mai ripagate, e i pochi personaggi che tentano un agire diverso (solidarietà e rispetto anziché aggressività e cinismo) sono costretti a cambiare (in peggio) oppure a soccombere. Da questo punto di vista quella del film è anche una riflessione esistenziale prima ancora che sociale. Ricco di scene dolorosamente eloquenti (la folla di volti che circonda Georgy nella piazza del mercato, l’impiccato nel bosco innevato), My Joy trova i suoi punti di forza nel perfetto impianto figurativo e nella miscela intrigante di elementi dal sapore ora documentaristico ora visionario, e lascia in bocca un sapore amarissimo inasprito da un finale sconsolante e crudele.