The Neon Demon
La massima estensione delle possibilità estetizzanti offerte sinora dal cinema di Nicolas Winding Refn delinea un percorso coerente con quanto già fatto dall'autore e con il suo cinema di riferimento
Che non dovesse essere un horror tradizionale era facile intuirlo: una cifra oscura serpeggia da sempre nel cinema di Nicolas Winding Refn e non sarebbe stata certo la nominale adesione al “genere” a farle cambiare pelle. Inoltre alle spalle ci sono le esperienze di Bronson, Valhalla Rising, Solo Dio perdona, che hanno definito un percorso più astratto, in cui l’umoralità degli esordi è incanalata in strutture espressioniste, pronte a seguire una natura più concettuale, pittorica quasi – e in questo senso l’anomalia è proprio quel Drive da molti indicato, al contrario, come la sintesi del Refn-pensiero, quello che piace sia al pubblico dei neofiti che degli affezionati per la sua adesione decisamente più convinta ai canoni di genere.
Il punto è comprendere se il “caso” The Neon Demon suggerisca un’ulteriore svolta evolutiva nel percorso, o al contrario una ricaduta nella maniera, se c’è (ancora) sincerità nella posa in opera di universi dove la natura insinuante delle immagini tradisce ormai una certa freddezza, un lirismo più contenuto. Di sicuro c’è una precisa continuità, garantita da una natura estetizzante che non smette di eleggere il cinema a proprio referente primario: lo si nota negli omaggi molto precisi ai numi tutelari di Bava e Argento – quelli di Sei donne per l’assassino e Suspiria – che non sono mera cinefilia, ma condivisione di una filosofia del cinema in quanto mezzo in grado di generare mondi dove il meraviglioso e l’oscuro si toccano.
Ma ci sono anche scampoli di una realtà inseguita nei suoi aspetti meno scontati, nella sua malinconia soffusa, nella capacità di isolare i personaggi nella pienezza di un mondo che appare però vuoto, desolato: certi tagli di luce nella Los Angeles al crepuscolo, le piscine vuote in segno d’abbandono, la periferia dei motel che sembrano cattedrali nel deserto, al confine fra la civiltà e la giungla – dove non a caso può fare irruzione anche un felino. Come nei Bling Ring di Sofia Coppola, c’è un mondo concreto che rispecchia fra le sue pieghe la falsità di cartapesta di quello inseguito dai modelli della società dell’immagine: dove non a caso lo spazio si reinventa e un telo fotografico diventa un’apertura sul nulla (o sul tutto), mentre i ritmi incalzanti delle musiche di Cliff Martinez costruiscono letteralmente l’ambiente. Le atmosfere si definiscono e si legano a doppio filo al turbinare pulsante delle alternanze luce/buio offerte dalla fotografia di Natasha Braier, esacerbando quella tensione che serpeggiava forte già nelle violente dissolvenze a rosso degli esordi di Pusher.
L’adesione al genere permette in questo caso la scansione abbastanza netta fra il dentro e il fuori, fra il mondo patinato delle copertine e il difficile rapporto con i burberi gestori dei motel, fra la compiacenza dei fotografi che modellano la donna e i compagni che subiscono la transizione della persona amata; l’ascesa esteriore di Jesse alle vette della moda si intreccia così alla caduta interiore del suo incedere angelico e innocente: vittima ma anche inconsapevole causa dei meccanismi di sopraffazione che dominano quella realtà. E si ritorna in questo caso a Suspiria, alla massima malvagità stregonesca che si unisce alle dinamiche “piccole” delle scaramucce fra ragazze-bambine. In fondo anche The Neon Demon racconta questo: la massima estensione delle possibilità estetizzanti offerte sinora dal cinema di Refn, con il minimo sviluppo narrativo e “mitologico” della realtà che si pone in essere.
Da questo versante il racconto si fa sì controllato e “gelido”, ma anche istintivo, empatico, in un turbinare di sensazioni che definiscono una natura ipnotica: non un saggio sulla corruzione dell’innocenza da parte del rapace mondo della moda, ma neanche una parimenti “digeribile” storia di perdizione e trasformazione nell’altro da sé, con cui sarebbe stato più facile scendere a compromessi. L’importante è lasciarsi trasportare, d’altronde Refn invoca la natura perturbante del cinema, in grado di suscitare reazioni nette: siano esse l’entusiasmo o il rifiuto, l’importante è non restare indifferenti.