Velvet Buzzsaw
Netflix e Dan Gilroy confezionano un altalenante ibrido sul mondo dell'arte, tra farsa grottesca e film di genere.
Forse non c'è nulla, oggi, che meglio si presti alla satira sociale e a uno sguardo tagliente e critico sulla contemporaneità come il mondo dell'arte e la sua decadenza. A dircelo è sicuramente il successo recente di film come il The Square di Ruben Östlund, ma anche l'essenza stessa di una realtà che pare divenuta, col tempo, sempre più il riflesso distorto di se stessa, caricatura stilizzata a uso e consumo di una apatica élite di cultori.
Non sorprende più di tanto, allora, che proprio a quel mondo decidano di guardare anche Netflix e il regista di Velvet Buzzsaw, Dan Gilroy, dando vita a un horror dalla forte componente ironica e grottesca.
Abbandonati gli inferni mediatici di Nightcrawler e quelli giudiziari di End of Justice, è infatti proprio con l'arte e con l'industria che la circonda che lo statunitense Gilroy decide, questa volta, di confrontarsi, mettendo in scena la consueta Los Angeles dantesca ma calcando il piede sulla stilizzazione e sullo straniamento, restituendo un mondo assurdo e freddo come le figure che lo abitano. È qui, tra mostre, musei e atelier dove si decidono le sorti stesse di artisti e addetti ai lavori, che l'arrivista Josephina (Zawe Ashton) scopre per caso l'opera postuma di un pittore sconosciuto e disturbato i cui quadri paiono essere intrisi di una misteriosa e letale maledizione. È l'inizio di una catena di eventi che, sulla scia del più classico horror con al centro una serie di omicidi soprannaturali (The Ring, sopra tutti), paiono destinati a rivoltare quel mondo dorato sin dalle fondamenta, facendone emergere la superficialità, l'opportunismo, la cieca sete di denaro, fama e successo.
Perché, in fin dei conti, sta tutta qui l'intuizione di un film come Velvet Buzzsaw: prendere una trama lineare e abusata da horror di serie b e calarla all'interno di una riflessione cinica su un mondo alla deriva, dove il valore artistico di un'opera si misura troppo spesso con la sua quotazione di mercato (chiunque tenti di lucrare sui quadri del fantomatico Vetril Dease fa una fine terribile), alimentando un paradosso sempre più esplicito ed evidente.
Fino a qui tutto bene, non fosse che l'equilibrio tra queste due anime diventi presto estremamente precario, sbilanciato ora da una parte ora dall'altra, facendo di questo film costantemente in bilico tra farsa e prodotto di genere un ibrido imperfetto e altalenante, indeciso se buttarsi completamente sul fantastico o se sviluppare la sua divertita e grottesca componente satirica.
Non che gli elementi di interesse manchino: dalla caricatura di un mondo popolato da personaggi costantemente sopra le righe e ai limiti della macchietta (un Jake Gyllenhaal come al solito camaleontico, ritratto spietato di un critico d'arte e di un'intera categoria), al meccanismo orrorifico collaudato e implacabile, tutto sembra convergere in un'apocalisse morale ormai inevitabile. Eppure la sensazione data dalla visione di Velvet Buzzsaw è soprattutto quella di trovarsi davanti a una strana anomalia, una commistioni di toni, registri e generi che non solo pare forzata, ma persino priva di una direzione precisa, come se il regista, avuta da Netflix carta bianca, avesse voluto inserire qualsiasi incubo, ossessione, deriva satirica che gli venisse in mente, restando, però, bloccato sulla superficie (quanto, nella messa alla berlina del mondo dell'arte, pare già detto o già datato?) di una critica e di una riflessione mai realmente incisive.
Tra vittime scambiate per opere d'arte e proverbiali impresari vuoti e senza scrupoli, la parabola di Velvet Buzzsaw si fa così patinata e posticcia, superficiale e semplicistica come quel mondo che vorrebbe tanto sagacemente demolire ma di cui riesce solo a restituire un riflesso formalmente interessante ma datato come i suoi escamotage soprannaturali.