Il gioco di Gerald
L'ennesimo adattamento da Stephen King sorprende per fedeltà e inventiva, senza risparmiarsi uno sguardo critico sul presente.
«Le sovvenne un’idea in quel momento e le fece passare d’incanto tutta la voglia di ridere. […] lui non sapeva che lei non stava recitando perché per lui Jessie Manhout Burlingame, moglie di Gerald, sorella di Maddy e Will, figlia di Tom e Sally, madre di nessuno, non era più lì. Aveva cessato di esserci nell’istante in cui le chiavi avevano prodotto quel piccolo suono metallico nelle serrature delle manette».
Il gioco di Gerald, Stephen King
Si sa. Non è mai stato propriamente un idillio quello tra Stephen King e gli adattamenti cinematografici delle sue opere. A fronte di pochi, iconici capolavori – frutto comunque della personalissima visione di una manciata di Autori – sono fin troppi i prodotti mediocri tratti dallo scrittore più prolifico e adattato della letteratura contemporanea. C’è sempre stato qualcosa, nell’immaginario del Re del Brivido, impermeabile al grande (o piccolo) schermo, qualcosa che, inevitabilmente, si andava perdendo nel viaggio dalla pagina scritta all’immagine in movimento, impedendo un’aderenza fedele all’opera originale. Sorprende e non poco allora che a farci cambiare idea sia proprio l’adattamento di una delle opere dello scrittore del Maine a prima vista più difficili da portare sullo schermo. Distribuito a ridosso di It – una prima inversione di tendenza e grosso salto in avanti rispetto al disastro annunciato del coevo La torre nera –, Il gioco di Gerald riesce a mettere in scena i tormenti psicologici e le paralisi emotive di un romanzo oltremodo atipico e problematico.
Come poter rimanere fedeli a un racconto ambientato quasi interamente nella mente di una donna ammanettata a un letto dopo un gioco erotico finito male? Come poter rendere in un film quel chiacchiericcio ininterrotto e sfiancante all’interno di una psiche in subbuglio, tra traumi rimossi, sensi di colpa e incubi sempre più reali? Ci pensa Mike Flanagan (autore dopo questo adattamento della serie horror Hill House, sempre per Netflix) ad accettare la sfida, sfruttando trovate espressive fuori dai canoni per far esplodere finalmente il debordante immaginario di King sullo schermo. Quel che ne esce è un film sorprendentemente attento al testo di partenza, che ne semplifica e riduce all’osso la complessità introspettiva senza però snaturarla o pervertirla, mantenendo intatto lo spirito di un romanzo a cui spesso aderisce con dedizione quasi filologica.
Servendosi di soluzioni creative tutt’altro che scontate per sopperire all’intrinseca impossibilità di resa filmica di alcune scene – concretizzando ad esempio voci nella testa e pensieri in proiezioni fisiche meno problematiche –, Flanagan riesce a restituire appieno gli stravolgimenti emotivi della sua protagonista (una sorprendente Carla Gugino), resuscitando la carica critica di un testo ancora terribilmente attuale e difficilmente assimilabile alle sole logiche di genere. Diventa così impossibile non vedere, in un periodo in cui la donna e il suo corpo si fanno protagoniste di narrazioni sempre più complesse e stratificate, il tentativo di un prodotto di genere di dire la sua, mettendo in scena un incubo dove la donna («il sistema di deambulazione di una fica», come viene definita) è vittima sacrificale di un desiderio maschile opprimente, crocefissa dalle sue stesse paure e prigioniera di un rimosso grande quanto la propria oppressione.
Un racconto di formazione sui generis, Il gioco di Gerald, dove la salvezza dalle catene della prevaricazione maschile è da trovarsi solo in sé stessi, nella ridefinizione del proprio ruolo, e la cui tremenda attualità, a un ventennio di distanza dal testo che l’ha concepito, continua a sorprenderci, ricordandoci – se ancora ce ne fosse bisogno – che King non è un semplice scrittore di genere e che il terrore, quello vero, spesso non è fatto solo di chiari di luna.