No - I giorni dell'arcobaleno
Dittatura, spot e democrazia. L’ultimo atto della splendida trilogia sul Cile di Pinochet
Un refrain passepartout per i committenti di turno, poche parole “magiche” snocciolate con dissimulata sufficienza, a sigillare l’efficacia dello spot, del messaggio, indipendentemente dal prodotto, sia che si tratti della bibita “Free”, prossima oltremodo alla Coca Cola, di una soap opera o della liberazione di un popolo da una sanguinaria tirannide. Tutta merce da reclamizzare. «Quello che vedrete ora è perfettamente inquadrato all’interno dell’attuale contesto sociale. […] Oggi, il Cile pensa al suo futuro». Sono le parole che recita più volte il protagonista del film, e si potrebbe ricondurre a questa sorta di breviario del pensiero unico promozionale il senso ritornante e alienante di un’opera come No - I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larraín, tratto da The Referendum, opera teatrale di Antonio Skarmeta.
Cile, 1988: al comando da un quindicennio e incalzato dalle pressioni internazionali, Pinochet promuove un referendum popolare. Votare SÌ equivale a prolungare l’autocrazia e l’agonia del paese. Segnare NO significa scegliere la democrazia. Il giovane e brillante pubblicitario René Saavedra (Gael García Bernal) viene ingaggiato dal fronte del NO, dai politici di quel che è rimasto dell’opposizione. A disposizione ha 15 minuti di campagna quotidiana sul piccolo schermo di regime. Per vincere sarà necessario accantonare (relegare a assente extra-diegetico televisivo) l’incancellabile dolore dell’umiliazione, della morte, e inneggiare all’allegria…
Larraín e No. Ancora, per il regista, cortocircuiti fra Pubblico e Privato dentro la Storia, dentro un film che mette insieme realtà (immagini di repertorio) e ricostruzione fissate in immagini lo-fi in sistema U-Matic uniformante, imbalsamate in una patina di colore pop e opaco, pallido splendore tipico della civiltà catodica degli anni Ottanta. La rivoluzione tramite un piccolo-spazio-pubblicità, unica via possibile. La vittoria della democrazia grazie all’allegria (de)cantata in uno slogan dal situazionismo ribaltato, mutato di segno, addomesticato, incubato nella scatola televisiva, necessariamente rassicurante, “paesano” perfino, munito di bonario sorriso collettivo anziché di acidula risata. Insomma, come battere il nemico con le sue stesse armi mediatiche, e in più con l’immaginario TV made in USA, proprio quello, non plus ultra virale dell’imperativo Consumare, come indispensabile, paradossale riferimento da assorbire per la (contro)propaganda democratica.
Non devono trarre in inganno alcune dichiarazioni del regista circa la “positiva” chiusura che il film accorda a quel personalissimo, doloroso, tracciato di immagini in movimento che ha dedicato alla storia recente del suo paese. O, quantomeno, che le si prenda con le dovute misure perché questo No è davvero un oggetto insieme slabbrato, contundente e scivoloso sotto la sua superficie plastica, la sua visibile evidenza in quella forma più immediatamente epica, eroica, inevitabilmente e giustamente “liberatoria”. Si colloca alla fine, certo, in coda allo straordinario grigiore indifferente e mortifero esalato dai due capitoli precedenti, tassello conclusivo di una trilogia sulla dittatura di Pinochet, iniziata con Tony Manero (2008), ambientato nel 1978, e proseguita con Post Mortem (2010), ambientato nel 1973. Eppure sembra proprio sortire un effetto opposto alla saturazione, esito tutt’altro che ultimativo, bensì straniante, beffardo, come a voler differire il discorso, in direzione di qualcos’altro da aggiungere, ricercare, ricreare, oltre i titoli di coda. E se davvero fosse questo, per altri versi, il film più cattivo della trilogia? O il più criptico e inaccessibile, “falso”, il più cinematografico, irreale, anche senza elementi narrativi “disturbanti” come il riflesso danzante di John Travolta in Tony Manero e la ballerina in Post Mortem?
Larraín livella messa in scena e archivio in un film che si fa così straordinariamente “camaleontico”, mimetico, rispetto a se stesso, a ciò che plasma e ricompone sullo schermo ma che denuncia la propria precarietà, il suo effimero essere solo-un-film in un finale che interviene come fosse uno stacco dopo un interminabile piano sequenza. Finale in fondo pessimista, secondo molti. Spietato e caustico, secondo noi, l’altra faccia dell’ultima, infinita, crudele sequenza di Post Mortem.