Nomadica 2015 / Belluscone - Una storia siciliana
Il ritorno (o l'addio?) di Franco Maresco in un'opera a brandelli che è insieme ricognizione sull'immanenza più becera di Berlusconi nell'immaginario popolare e cupio dissolvi del suo autore.
Franco Maresco il sovversivo, Franco Maresco il recluso.
Il regista più ostracizzato e forse controverso del nostro cinema è tornato con un’opera sofferta, le cui vicissitudini sono state vissute direttamente sulla propria pelle dal suo autore e, non a caso, si mescolano inevitabilmente al diario privato di un film mai realizzato, di un lavoro ancora da farsi e forse non concretizzatosi. Eppure visibile ai nostri occhi, venuto alla luce con ostinazione. Maresco è forse l’unico regista italiano oggigiorno rimasto a indagare per davvero il crinale sperimentale che fa capo all’immagine televisiva, alle sue frattaglie e alle sue dispersioni congenite attraverso più schermi e ambienti.
Dunque è un regista off e negato dagli apparati produttivi tradizionali proprio perché ancora modernissimo, radicale, sempre e comunque pericoloso in quanto provvisto della capacità unica e allarmante di denudare il reale attraverso la forza dissacrante dello sberleffo comico e del ridicolo. Quello di Maresco può sembrare iperrealismo grottesco, ma è impietoso realismo tragico travestito da antropologia irrisoria e demente, com’è sempre stato e non potrà mai cessare di essere per tutto ciò che ha girato e - ci auguriamo - continuerà a girare. I suoi film sono scorie radioattive che è impossibile smaltire, detriti vergognosi e deliranti con cui è non è concesso fare i conti, perché rappresentano ciò che vorremmo non ci rappresentasse né fosse delegato a farlo. Mai, e poi mai. Maresco ci inchioda, si limita a mostrare e non ha la pretesa di dimostrare adoperando con presunzione i suoi strumenti. Confonde in modo impercettibile il vero e il falso così come la fiction e il documentario perché tutto ciò che passa dalle sue mani e si pone davanti alla sua macchina da presa contemporaneamente si assoggetta al suo discorso politico, al suo bianco e nero.
Belluscone. Una storia siciliana nelle intenzioni avrebbe dovuto fermarsi all’indagine dei rapporti tra Silvio Berlusconi e la Sicilia accogliendo all’interno della sua composizione fonti come sempre eterogenee: in particolar modo il mondo dei neomelodici napoletani in trasferta a Palermo, naturalmente ignoranti e simpatizzanti per la mafia, guidati dall’“eminenza grigia” Ciccio Mira. Un personaggio altrettanto buffo e cialtrone, comodista e omertoso, indulgente verso qualsiasi forma di potere. Usiamo il condizionale perché il film che è venuto fuori è sì questo, ma anche molto altro. In primo luogo è la resa struggente e ruvida di un cineasta enorme che non ha voluto vendere la pellaccia a una società e a un establishment ancora conniventi con l’ipocrisia e la perversione utilitaristica di cui il berlusconismo è l’ultima incarnazione, senza dubbio in via d’estinzione ma ancora tutt’altro che smantellata definitivamente.
Belluscone. Una storia siciliana di fatto è la cupio dissolvi di Franco Maresco, il congedo di un iconoclasta che vedendo lo squallore dilagante e il silenzio assordante che gli sono stati eretti intorno non può che rivolgere la scure dell’oblio contro se stesso, in tutta coerenza ed onestà. Il critico e storico del cinema Tatti Sanguineti, che nel film si mette sulle tracce dell’amico regista, è la realtà che incontra la trovata narrativa, il punto di fuga attraverso cui evadere da una prigione e mostrare finalmente al mondo il frutto di un lavoro spinoso e intricato, che rischiava di diventare un peso altrimenti insopportabile, tra l’infinita ricerca di un materiale d’archivio sterminato e l’addensarsi dei propri fantasmi personali. A che servono dopotutto gli amici, se non a risolvere le matasse più grandi? Sanguineti nel film è pertanto un deus ex machina che ci conduce per mano all’interno della vita privata di Maresco provando a districarsi in una rete di avvenimenti molto imbrogliata, tentando di far luce sui demoni, le idiosincrasie e tutti i piccoli grandi difetti di ogni genio che si rispetti, con l’affetto e l’ammirazione di un sodale ma anche di un grandissimo fan.
E’ palesemente un film incompiuto, Belluscone. Una storia siciliana, ma a dispetto di ciò è un film irrinunciabile e una boccata d’aria fresca come poche altre. L’opera di Maresco usa come meglio non si potrebbe lo strumento della satira, sfregia la mitologia berlusconiana con la consueta travolgente dissacrazione, conferma il suo autore quale intervistatore più magnetico e influente (in senso buono) in circolazione, anche ad anni di distanza dalla fine di Cinico Tv. Posti davanti a lui, i cantanti neomelodici diventano dei mostriciattoli aberranti che ammaestrano la piazza e cantano l’irresistibile Vorrei conoscere Berlusconi , Ciccio Mira è così subalterno ai poteri locali da risultare insieme penoso e degno di commiserazione e Marcello Dell’Utri, il gran visir dei legami mafiosi tra Berlusconi e la Sicilia, si tramuta istantaneamente in una maschera mareschiana di primissimo ordine, perché tra il regista e un personaggio così non può non esserci un’affinità immediata e magnetica. "Se un giorno Berlusconi decidesse di svelare i suoi segreti, che cosa pensa possa venire fuori?" domanda Maresco al senatore Dell’Utri, che risponde così (udite udite): "Un sacco di cose, per esempio anche qualche mistero sulla morte di Mattei" . Ed ecco che il microfono e l’audio vanno in panne e le scottanti rivelazioni sono perse per sempre, mentre in sala infuriano - giustamente - delle risate belluine.
Verità, finzione, irruzione di un caso scorretto e bizzoso che si diverte come sempre ad accanirsi sul solito, sfortunato e beffato Maresco? Non lo sapremo mai. Sta di fatto che il film, anche nella sua struttura consapevolmente a brandelli e nel suo persistere in qualità di irrisolto cantiere aperto, è anche un impressionante, vitale e scorretto documento antropologico sulla Sicilia e il suo bisogno di essere dominata e adulata dai potenti in tutte le forme possibili, lecite ma soprattutto illecite. Il grido d’allarme di un grandissimo autore direttamente da una terra (la sua) schiavizzata dal malaffare e rigorosamente “buttanissima”, come l’ha definita il giornalista e scrittore Pietrangelo Buttafuoco nel suo ultimo splendido libro. Sempre pronta a rendersi subalterna di buon grado al mitomane di turno, quando non al sommo plutocrate di un ventennio di storia italiana. Ecco perché in Belluscone. Una storia siciliana si ride tantissimo ma è un sorriso amaro, che resta spezzato in gola, come sotterrato dal sarcasmo che vorrebbe dissimulare la tragedia, cancellato dall’amarezza di un fallimento e di una resa. Di un popolo, e di una nazione. Ovviamente.