All’inizio l’immagine.
Ogni immagine ha un fondo che può essere limitato o illimitato, che può concedersi a livello immediato, o, al contrario, nascondersi, rinviare ad altro, traslare in continuazione il suo contenuto di verità. Soffermiamoci sul primo caso, su uno sguardo (l’autore) che crea l’immagine e la sottopone, in tutta la sua evidenza, a un eventuale spettatore. In questa prima ipotesi lo spettatore ha un’immagine immediata – che pare un evidente paradosso. Se l’immagine fosse veramente chiara, non detenesse alcun segreto, fosse esattamente ciò che viene mostrato e null’altro, allora lo spettatore sarebbe ridotto alla passività, diventerebbe l’oggetto guardato dall’immagine e non più soggetto che deve accogliere e poi rielaborare, completare quella stessa immagine. Un’immagine che esiste unicamente nella sua datità nega il rapporto tra due soggetti e porta alla luce invece quello tra soggetto e oggetto, rendendosi finita, chiusa ermeticamente in se stessa, condannata all’autoreferenzialità. Il nucleo centrale dell’ultimo film di Lars Von Trier è proprio questo: perché, fino a prova contraria, il regista danese ha girato il suo porno. Ma non per un discorso ostensivo, veicolato da contenuti espliciti, atti spinti o perversioni sessuali, ma per tutto ciò che implica il meccanismo di fruizione del film stesso. La pornografia è basata su un’immagine unilaterale, riparata dall’erotismo, programmaticamente solipsistica, impossibile da esser completata: la polarità opposta è l’erotismo, fondato invece sull’apertura, sull’allusione, non sull’elemento dato ma su quello non dato, non sul dettaglio ma sul fuori campo. In poche parole la conditio sine qua non di un’opera porno è l’ostentazione di un momento performativo che si conclude nella sua stessa performance: come a dire, l’immagine è quella e non può, non vuole alludere a nient’altro. Tutto è ipervisibile, tutto si dà senza nascondimento. La matrice pornografica agisce sempre di più su ogni sfera del visibile e all’interno di una società massificata, mediatizzata, diviene indice ideologico dell’immagine stessa, cifrato dai codici dell’accumulo, dell’eccesso e, ovviamente, della provocazione. La stessa censura è componente intrinseca del linguaggio pornografico, perché la repressione è parte integrante che permette la sussistenza di quello stesso genere-pensiero.
Nymhomaniac – Volume 1 assorbe in sé tutti i codici ideologici del porno: la stessa divisione del film in due parti si presenta come un coito interrotto che crea necessità, infiammando non tanto il desiderio del proseguo, quanto un’ipotesi di astinenza. Ecco allora che questo chiacchieratissimo oggetto, genialmente sottoposto a una campagna di marketing che prosegue da mesi, rivela la sua vera identità. Nel suo esibire il fondo opaco di ogni immagine, il suo non essere altro da ciò che appare, Lars Von Trier rinuncia a ogni possibile e a ogni trasparenza. Invece di aprirsi alle possibilità Nymphomaniac – Volume 1 non fa che imporre la sua visione del mondo. Traslazioni, analogie, metafore esistono ma non partono dal pensiero dello spettatore, ma dal film stesso che sottolinea, connette, associa, ingabbiando il pensiero altrui all’interno di un mondo sclerotizzato, superficialmente collaudato e meramente architettato, un mondo che non ha bisogno di altro se non di se stesso (un mondo che, di sicuro, non ha bisogno di spettatori).
Nymphomaniac nasce dall’oscurità, dal suono della pioggia che esclude tutto il resto. Durante una fredda serata invernale Seligman, un uomo di mezza età, colto e apparentemente innocuo, trova Joe, una donna malconcia e ferita, sdraiata in un vicolo. La porterà a casa per assisterla e la donna incomincerà a raccontargli la sua vita da ninfomane, in un percorso regressivo nei meandri della sua sessualità che culminerà con un crescente, disarmante stato di apatia. La prima parte è divisa in cinque capitoli, alternati dalle lunghe sequenze di dialogo in cui Seligman connette il racconto a una serie infinita di digressioni volte a inseguire un’idea fissa: ogni cosa è riconducibile al sesso. Lars Von Trier costruisce il suo film su un’ennesima coppia, la ninfomane e il vergine, l’istinto e la cultura, rendendoli vasi complementari, che hanno i loro momenti più felici non quando si contrappongono schematicamente, ma quando si completano a vicenda. Ma sul rapporto tra Seligman e Joe torneremo quando parleremo della seconda parte del film, quello che ci interessa ora è la relazione che il regista instaura con lo spettatore. Von Trier lavora su un’immagine unilaterale, arricchita da orpelli che la rendono continuamente una sorta di piattaforma visiva. Lo schermo è una superficie, l’immagine esiste per essere manipolata, ma ogni manipolazione deve seguire necessariamente la stessa strada, senza lasciare scorciatoie o passaggi segreti. Codici della natura, operazioni matematiche, numeri di Fibonacci, note musicali entrano prepotentemente in sovrimpressione: tutto in questo film è pura affermazione, riduzione e riassorbimento a una sessualità che non ha alcuna radice erotica. Quello che infastidisce non è il pensiero – abusato e moltiplicato – ma la gestione stessa di quel pensiero all’interno dello spazio filmico. Lo spettatore si ritrova confinato in una gabbia da cui non può uscire. Lars Von Trier arriva a negargli qualsiasi possibilità di poter completare le immagini e finisce per schiacciarlo come se fosse un semplice oggetto da usare per il suo film-terapia. Certo, si dirà che l’operazione è coerente dall’inizio alla fine (perfino dal titolo, dalla locandina all’immensa campagna di marketing) ma proprio per questo richiede necessariamente di schierarsi. Perché il problema è di ordine morale e riguarda lo stesso linguaggio cinematografico. Qui il didascalismo si è trasformato in illustrazione al quadrato: un’intera opera si profila come mappa, riflessione sulla digressione che vorrebbe farsi film-mondo. Ma se questo è un film-mondo allora ha completamente dimenticato lo spettatore, impossibilitato a percorrere lo schermo da solo. Lars Von Trier firma dunque la sua opera più coercitiva lontana anni luce dal cinema terapeutico-eversivo che vorrebbe inscenare. Manca il terreno comune, il nesso tra regista e pubblico: la terapia del primo non ha un effetto catartico per il secondo. Così facendo Nymphomaniac – Volume 1 si delinea come l’opera idiota per eccellenza, nel senso che esclude qualsiasi contatto con l’altro, o meglio ancora, esclude l’altro.
Siamo all’interno della sfera in cui è sempre più difficile riuscire a separare il regista dall’opera, l’operazione di marketing dal film stesso. Ma d’altronde Nymphomaniac si presenta, ancora prima di esser visto, come un’operazione ipercodificata. Alla ricerca di una sorta di bignami perfetto, Von Trier vorrebbe oggi continuare a scandalizzare ma si ritrova, alla fine, fuori tempo massimo. Nymphomaniac – Volume 1 non è un’opera che scandalizza perché non ha un referente, perché non avviene mai un vero, autentico scambio di sguardi. E’ un film a tesi sul dissipamento, sul nichilismo estremo che governa la realtà sulla terra, sulla solitudine universale, sulla totale incapacità di credere negli uomini…è tutto questo ma non riesce a raggiungere la categoria di potenza dell’iconoclastia, non riesce a far erompere quel furore eversivo che caratterizzava tanti suoi precedenti illustri. Ma è chiaro, siamo pur sempre nell’ultimo capitolo di una trilogia della depressione, non possiamo aspettarci la joie de vivre del libertino o la potenza vitale e dionisiaca della dissipazione. Prendiamo allora Nymphomaniac – Volume 1 per quello che vorrebbe essere: un film sull’apatia, un film sull’insensibilità come condizione feconda per l’accumulo, per la quantità, per la bulimia. Le digressioni colte che accompagnano la visione, spaziando dalla sezione aurea al ruolo delle icone e alla pesca, riducono l’intero bagaglio culturale a una serie di link figli della cultura digitale e wikipedizzata, a un manifesto superficiale che possa guidare, connettere il mondo delle immagini. Perché alla fine è sempre di origine del mondo che si parla. E di questa opera-monstrum, titanicamente masturbatoria, rimane soltanto qualche bel momento: l’intera, splendida sequenza con Uma Thurman, gli sguardi del buon pastore Stellan Skarsgård e, ovviamente, i primi minuti che aprono il film: immersi nel silenzio di un mondo di possibilità che, entro poco tempo, saranno negate. Duole dirlo ma Lars Von Trier non è mai stato così prevedibile e conformista: cambiano i formati, cambiano i colori, ma il film rimane sempre e solo se stesso. Il primo capitolo si chiude. “Non sento nulla” dice Joe.
(continua…)