
Odete, melodramma eccentrico e straniante del portoghese João Pedro Rodrigues, descrive l’incontro singolare di due solitudini: un ragazzo straziato dal dolore per la morte del fidanzato e una ragazza che lascia il proprio compagno poiché non vuole assecondare il suo desiderio di diventare madre. Come nel suo precedente film Il fantasma, il regista costruisce un universo in cui si muovono personaggi segnati da passioni viscerali e frustrate; in entrambi i casi il registro espressivo, che in partenza appare realistico e quasi crudo, cede progressivamente il passo a una dimensione dai risvolti surreali e visionari. Sergio, protagonista de Il fantasma e unico fulcro di tutta la messa in scena con la sua sensualità ambigua e perturbante, annullava gradualmente se stesso fino a occultare completamente, infine, la propria identità dietro una maschera. Odete, protagonista del film omonimo, trasfigura la propria identità in qualcosa d’altro fino a fondersi con l’immagine di Pedro, il ragazzo amato da Rui e rimasto ucciso in un incidente automobilistico. E’ in questa sofferta metamorfosi (ideale e insieme anche fisica) della ragazza che si inscrive l’incontro di lei con Rui, inizialmente dubbioso e aggressivo di fronte agli atteggiamenti stravaganti ed eccentrici di Odete.
Quello di Rodrigues è un film piacevolmente insolito che non teme di sbilanciarsi nel sentimentalismo e nel grottesco, ma anzi sceglie sotto alcuni aspetti di essere “eccessivo” (ad esempio con l’uso della colonna sonora che cita apertamente Colazione da Tiffany). La cifra stilistica propria del regista sembra essere una miscela di crudezza e naivitè nella quale trovano ragion d’essere e fondatezza gli spunti narrativi più insoliti. Si ha l’impressione, addentrandosi nell’universo poetico di Rodrigues, di essere di fronte a una rappresentazione non filtrata, non mediata, ma spontanea e libera, quasi che l’istintività e la passionalità dei personaggi sia lo specchio del modus operandi del regista nel fare cinema e nel “pensare” il cinema. Lo stesso percorso di Odete non è e non vuole essere spiegabile razionalmente, ed “eccede” le logiche di causa-effetto consone a una descrizione che voglia restare sul piano del realismo. La ragazza infatti dopo una gravidanza isterica patisce (nel senso più proprio che il termine pathos suggerisce) il lutto per la morte di Pedro – che non ha mai conosciuto – fino a immedesimarsi completamente in lui; l’apparente mancanza di coerenza di ciò che viene narrato ha il sapore di un “gesto surrealista” e quasi richiama, per la ruvida naturalezza della messa in scena, certo cinema di Tod Solondz (Palindromes).
Desiderio (o meglio ossessione) e inadeguatezza sembrano essere i due poli tra i quali oscillano spesso i personaggi di Rodrigues; il desiderio di maternità diventa per Odete una fissazione morbosa che la spinge alla follia e allo stesso tempo la rende quindi “inadeguata”, cioè incapace di scendere a patti con la realtà e di comprenderla. Il passaggio successivo a questo stato di cose è la necessaria metamorfosi per uscire da quel sé che è appunto inadeguato al mondo circostante: se Odete non può essere madre e non può partorire il figlio di Pedro (con il quale non ha avuto alcun rapporto) allora non le resta altro che essere Pedro, e mettere in atto questa sua volontà con il sostegno e l’approvazione di Rui, che muterà così l’oggetto del desiderio ma non il desiderio in sé.
Odete, presentato e apprezzato al Festival di Cannes nel 2005, riconferma le qualità del regista portoghese, la sua sorprendente libertà espressiva e la capacità di abbandonarsi a una narrazione che si sviluppa senza vincoli e compromessi di sorta e che osa, da ogni punto di vista, come poco cinema contemporaneo sceglie di fare.