
Il cinema di Hong Sang-soo si dà all’occhio spettatoriale in modo così immediato e coraggiosamente libero,“nudo”, da rischiare il rifiuto, quando non il dileggio, da parte di chi lo guarda o crede di farlo (specie coloro che credono esista un modo unico e assolutistico di conoscere il cinema). È, in realtà, un’armonia palpabile e vaga insieme, un cinema come sospeso, obbligato in una struggente indefinitezza. Lo si potrebbe pensare come a un palloncino rimasto incastrato fra i rami di un albero: lontano da terra eppure impossibilitato a scomparire nel cielo, disobbediente suo malgrado al richiamo ammaliante delle nuvole. Abita l’aria ma respira umano. Anche in Tale of Cinema.
C’è un ragazzo che dorme accanto a lei, al suo amore ritrovato attraverso la vetrina di un negozio, doppio schermo reciproco che li fa ri-vedere. Dormono dopo l’alcool in eccesso, il karaoke, le parole, dopo il bacio, dopo aver tentato invano di fare sesso. A un certo punto il giovane si alza dal letto, spalanca una porta ma dietro ce n’è un’altra che custodisce il suo sogno notturno. La apre e per qualche istante visitiamo con lui cosa nasconde: una luce irreale di un luogo irreale, una ragazza ? una sconosciuta? ?, seduta sui gradini di una scala, che mangia una mela, gliene offre una. Lui richiude la porta. È uno scarto improvviso. Non tornerà, non torneremo lì. Eppure di soglie diverse ne varcheremo in Tale of Cinema, in concorso al Festival di Cannes nel 2005, costruito ? come l’intera produzione del regista sudcoreano, approccio e spirito nouvelle vague, fra Truffaut e Rohmer ma senza sterile ricalco ? su un itinerario continuo fatto di porte girevoli fra finzione e realtà, su giochi di specchi (anche dolcemente deformanti) fra autobiografia e poesia per immagini.
Il ragazzo intanto è tornato a letto, prova di nuovo a penetrare la sua amata, tuttavia ancora una volta non vi riesce. Decideranno di morire insieme ingollando sonniferi, mentre una finestra aperta rivela la neve che scende su Seoul, ma alla fine lei scapperà e lui, sopravvissuto alla morte ma non a se stesso, si ritroverà da solo, su un terrazzo, a gridare, a implorare. Scopriremo, però, che è stato solo un film (nel film): colei che interpretava la ragazza è una famosa attrice, esce dalla sala dove hanno appena finito di proiettare la pellicola; un uomo (un regista), amico di colui che l’ha diretta sullo schermo ed è ora in fin di vita in ospedale, la segue, già la ama. Inizia così l’altra metà di Tale of Cinema, ma è solo minima variazione di un racconto unico, è già una ripetizione, un’osmosi di storie e percorsi esistenziali fra simmetrie e deviazioni, zone oscure e accensioni dell’anima. Ecco perché le traiettorie narrative e le scene possono riproporsi diverse eppure uguali. Ecco perché lo zoom può ritornare sfrontatamente esibito a osservare e a cogliere lieve i corpi, i sentimenti e le parole che scivolano inafferrabili sullo schermo, dove cinema e vita fanno l’amore e poi si mollano in un malinconico, dolcemente perverso, atto di resistenza. Ecco perchè possiamo tornare a una stanza ? lei è la stessa, lui è un altro ma il copione si ripete e cambia rispetto al “primo capitolo” ? dove palpiti, epidermide e sesso si cercano, fino all’illusione di trovarsi per un attimo, dove l’infrazione si insinua nei frammenti di un dialogo, dopo la ricerca dell’orgasmo:
Lui: Scusa… Lasciami qualcosa che possa conservare!
Lei: Qualcosa?… Non credo che tu abbia davvero capito il film!
Ecco perché finisce tutto ma solo per poco.
Perché è soprattutto questo il cinema di Hong Sang-soo: è un lungo film d’amore sempre provvisorio, che rimanda perennemente il The End, sposta in un altrove incerto quella scritta bianca su fondo nero mentre la voce narrante di un personaggio continua a depositarsi sulle immagini che verranno.