Olive Kitteridge

Rigoroso adattamento letterario che prende spunto da una difficile storia famigliare per raccontare l'infinita complessità delle relazioni umane

È facile pensare che i buoni sentimenti, la parola stessa lo dice, appartengano ai “buoni”. Ma l’amore, la tenerezza, l’istinto di protezione sono elementi talmente universali che ecco, anche i cattivi, i meschini, gli egoisti amano sinceramente, con il cuore in mano; e non ce n’è da stupirsene, anzi, tali emozioni assumono, in un contesto spirituale più arido e coriaceo, il ruolo di segrete e fortissime testimonianze di come si è stati, malgrado tutto, umani e vulnerabili esattamente come tutti gli altri, quei “buoni” che si maltrattano quotidianamente con frecciate crudeli e un’infinita, apparente indifferenza.

Olive Kitteridge, miniserie HBO tratta dall’omonima opera letteraria di Elizabeth Strout, premio Pulitzer per la narrativa 2009, racconta la storia di una donna poco gradevole. Da adulta, è un’insegnante intransigente, moglie e madre critica e severa; da vecchia, qualora i nodi vengono al pettine e le persone amate rivelano, con le parole o andandosene, quanto sono stata ferite da lei, diviene lo spauracchio dei bambini che al suo passaggio, intuendone l’asprezza, scappano definendola una strega cattiva. Come spesso accade, un personaggio tanto inflessibile si accompagna a un partner dal carattere opposto, e così Olive (una straordinaria Frances McDormand) ha sposato un uomo che è tutto il suo contrario. Henry Kitteridge (Richard Jenkins), farmacista, è definito in città l’uomo più gentile che si possa incontrare, ed è vero: sorride a tutti, non lesina una parola dolce a nessuno e si prende a cuore i più sfortunati come nel caso di Denise, giovane vedova ingenua e allegra, con cui svilupperà un rapporto protettivo fra il paterno e l’innamorato.

L’adattamento televisivo di Lisa Cholodenko ha alleggerito il corpus di storie che costituiva l’opera letteraria originale, per concentrarsi principalmente sui componenti della famiglia Kitteridge, rappresentando sullo schermo l’antica quasi mai risolta questione relativa a quanto la felicità presupponga un certo ottundimento della mente. La depressione è un fattore endemico, praticamente genetico nella storia di Olive, che l’ha prima esperita col padre suicida e poi in se stessa e nel figlio, ma diviene anche l’arma con la quale oppone al mondo esterno la propria irriducibile consapevolezza. Gli stupidi sono sempre felici, ma gli intelligenti non possono esserlo se vogliono rimanere appunto intelligenti; bisogna sempre pretendere dagli altri e da sé il massimo, anche a costo di apparire insensibili e senza cuore; perdonare, edulcorare i fatti, lasciarsi andare al sentimentalismo è cosa puerile e idiota. Una celebrazione della razionalità che concretamente non lascia respiro e soffoca gli animi altrui, pur meritando la nomea di onesta fedeltà al proprio pensiero.

Eppure, intorno a Olive le persone muoiono lo stesso di disperazione, la medesima angoscia che turba lei stessa, o si consumano in essa pian piano: e malgrado lei non possa fare a meno di amarle quasi in segreto, anche nella perdita non riesce a toccarle. Olive Kitteridge è per questo un perfetto compendio di come l’amore, idealmente buono, generoso, illimitato, si realizzi spesso nella vita reale come un labirinto intricato di egoismo, furia e lancinante tenerezza, una continua lotta contro l’altro che desideriamo e rigettiamo allo stesso modo per il bisogno che abbiamo di lui, rendendoci deboli e rabbiosi. I sentimenti sono talmente complicati che nessuno ideale amoroso può minimamente renderne l’intensità. Rimane solo l’istinto del racconto, letterario o cinematografico che sia, ultimo tentativo di descrivere quel che ci succede in petto, “buoni” o “cattivi” come siamo.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 31/01/2015

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