The Undoing
La serie con Nicole Kidman e Hugh Grant è pura Susanne Bier: eccessiva, sguaiata e urlata in ogni fotogramma. Ma non possiamo smettere di guardare
Non tutti possono essere un “autore”, come lo intendevano i Cahiers nel secolo scorso: Susanne Bier non lo è. Non tutti possono fare cinema raffinato e stiloso, corteggiando il pubblico con una serialità elegante, cesellata e tutto sommato rassicurante: Susanne Bier non lo fa. È la premessa per avvicinarsi a The Undoing, miniserie in sei puntate tra i prodotti più discussi di questo inizio 2021: tratta dal romanzo Una famiglia felice di Jean Hanff Korelitz, creata e scritta da David E. Kelly, già responsabile di Big Little Lies, e interamente diretta dalla regista danese. La storia è la solita storia: c’è una famiglia alto-borghese di New York composta da un noto oncologo infantile, Jonathan Fraser interpretato da Hugh Grant, sua moglie Grace raffigurata in Nicole Kidman, il figlio pre-adolescente col volto di Noah Jupe. La comoda routine dei ricchi viene “disturbata” da una ragazza di classe sociale inferiore, Elena Alves ovvero una splendida Matilda De Angelis, che si avvicina a Grace per motivi di beneficenza e poco dopo viene trovata morta: si scopre allora che conosceva anche Jonathan (piuttosto bene) e la ridda dei segreti inizia a venire in superficie.
Fin dalla sua apparizione sulla rete HBO le stroncature sono piovute sull’opera e, diciamolo subito, tutte legittime: le inesattezze e gli inciampi sono molteplici in questo racconto di 340 minuti, che chiede una continua sospensione dell’incredulità a chi vorrà sostenerlo. A partire dalla premessa che reimpagina un archetipo primario di tanto cinema e letteratura, la famiglia ultraricca con un segreto, l’adulterio nascosto sotto il tappeto, tra una New York softcore alla Adrian Lyne e lo scandaglio nel rimosso borghese di Chabrol, che fa sempre rima con morte. Vi sono poi alcuni segni grafici che segnalano un’ambizione folle e smisurata: innanzitutto la presenza di Nicole Kidman che si interroga sulla reale natura del marito, vent'anni dopo Eyes Wide Shut ma alle prese con un simile dilemma, naturalmente senza evocare l’ambiguità, l’indecidibilità e la traccia onirica del film di Kubrick. Al contrario The Undoing è un giallo che si nutre di stereotipi: l’omicidio della bella ragazza, i sospetti, il velo gradualmente squarciato, il rapporto tra moglie e marito da ricodificare, con lei che non sa più come porsi e costituisce l’essenza psicologica della serie. E poi ci sono gli indizi, le false piste, gli avvocati, il processo, il legal thriller. Solo che le motivazioni dei caratteri non vengono approfondite né sfaccettate, Grant e Kidman fanno Grant e Kidman, ovvero pronunciano le rispettive battute contraendo le rughe del volto (lui) e sgranando gli occhi umidi (lei). Donald Sutherland è il padre di lei che buca lo schermo, ma allo stesso modo veste tratti tipici. All'operazione si possono tranquillamente imputare una regia convenzionale, una cattiva direzione degli attori, una scrittura automatica della suspense.
Unendo i puntini The Undoing sarebbe quindi un “normale” fallimento. Pero c’è Susanne Bier. Ex regista del Dogma di fine anni Novanta, duramente criticata da Lars von Trier che la odia, capace di una svolta commerciale che l’ha portata perfino all’Oscar come migliore film straniero (In un mondo migliore, 2011, titolo originale: “vendetta”), la Bier porta avanti una sua idea personale di come si fa cinema: eccessivo, sguaiato, urlato in ogni fotogramma. Se farà la tragedia sarà irredimibile e senza speranza: si svolgerà tra traumi e tumori, morti violente, situazioni irrecuperabili, oscenità in campo, come il bambino morto di Second Chance, etica discutibile, come il neonato che viene sostituito nello stesso film. Se invece si applicherà alla commedia, questa si giocherà tra balli e baci, tramonti esangui, segreti da scoprire. I limoni di Sorrento sono l’oggetto-simbolo di Love is all you need, titolo in sé già sintomatico, come tutti i titoli della Bier che si rifanno spesso a pulsioni basiche (amore, vendetta, e così via). The Undoing non fa eccezione. Come poteva la danese dedicarsi a una tale miniserie? Semplice: schierando le armi dello stereotipo elevato all’ennesima potenza. È una regista maleducata, Susanne, al contrario di tanto cinema “preciso” è una scapigliata: ecco che l’esagerazione si impone fin dall’inizio, con la sequenza di nudo di Matilda De Angelis che svolge una precisa funzione narrativa, di provocazione, ma anche di rivelazione, perché la ninfetta dopo il marito si “mostra” alla moglie, in modo teoremico, conquistando di fatto anche lei (il bacio in ascensore). È il presagio, ovviamente eccessivo, dell’omicidio.
Susanne Bier mette il genere in iperbole: tutto può succedere, colpi di scena improbabili si susseguono, ogni finale di puntata contiene un cliffhanger parossistico. I sospettati infatti sono tutti, perfino un bambino: la regista sposta vorticosamente l'attenzione dall’uno all’altro, fa pensare che chiunque può essere il colpevole, salvo infine rivelarlo (no spoiler) con un epilogo che è prova decisiva della sua concezione. D’altronde, col senno di poi, un indizio sulla soluzione era contenuto nella sigla della serie, con quella bambina che scorre sulle note di Dream a Little Dream cantata da Nicole Kidman, e che abbiamo sempre avuto davanti agli occhi. L’operazione è risaputa, non può dirsi “riuscita” nel senso tradizionale del termine, d’accordo, eppure seguendo il racconto emerge una strana sensazione: e se la Bier l'avesse fatto apposta? Se ci stesse fregando tutti? Vedendo la Kidman che cammina per la città avvolta nei suoi cappotti senza un capello fuori posto, ottimo lavoro di costumi e make up, il dubbio viene: se questa fosse una meta-Kidman che fa una meta-sfilata a 53 anni? Vedendo un giallo assurdo che passa da un sospetto all’altro, non stiamo forse guardando un giallo assurdo che riflette sulle assurdità del giallo? E, più in generale, una serie ricattatoria che fa la parodia del ricatto intrinseco in ogni serie, della dipendenza che provoca nello spettatore?
Da sempre Susanne Bier manovra il potere distorsivo delle immagini con profonda consapevolezza: in The Undoing non sta solo praticando un genere, ma lo sta sabotando attraverso l’esagerazione, con la sua sfacciataggine ne isola i lati ridicoli e parodici. Nel nostro tempo post-tutto, chi se ne importa di sapere chi è l’assassino, meglio godere di Grant e Kidman in un perenne confronto volgare e senza pudore. A proposito di The Undoing, un commento ricorrente è stato: «Bruttissima, ma non riesco a smettere». Allora rispettiamola, questa serie: nella stessa misura in cui rispettiamo il nostro piacere che non è mai colpevole, tanto il colpevole non importa, conta solo il meccanismo.