L'immensità
Crialese torna a fare cinema dopo 11 anni da "Terraferma" per raccontare la sua storia autobiografica. Il risultato è un melodramma che cerca l'urgenza dei sentimenti ma è troppo vicino ai personaggi per inquadrarne la complessità emotiva.
È curioso che al centro del progetto della propria vita, il progetto inseguito per molti anni e aspettato per la ricerca di una giusta misura, di una giusta distanza con cui raccontare il proprio dramma, Emanuele Crialese abbia messo una figura rubata a piene mani ad altri immaginari espressivi. Senza i giusti paratesti, L’immensità potrebbe infatti sembrare una sorta di elogio alla figura almodovariana di Penelope Cruz più che la storia sentitamente autobiografica di Adriana, bambina desiderosa di diventare altro (nello specifico di diventare Andrea), in una Roma anni ’70 spaccata tra la conservazione dello status – di genere e di classe, tra padri padroni e quartieri formati sulle bonifiche delle zone operaie – e l’affacciarsi di un mondo nuovo, segnalato, ad esempio, dal promettente avanguardismo di certa televisione fatta da Raffaela Carrà. Il film si dichiara fin da subito (dal materiale promozionale) come pensato e articolato sul volto dell’attrice, intorno alla sua figura, e non fa sforzi per nascondere l’indebitamento con il suo divismo, anzi, ci investe il proprio mondo, il proprio immaginario e le proprie soluzioni di senso. È il corpo fluido e multiforme di Cruz (e non il punto di vista di Adriana/Andrea, con cui entriamo nel film) a mettere in movimento gli scontri tra dimensioni su cui è costruito il film: quello tra la realtà controllata dal maschilismo tossico dei padri e dal bigottismo delle istituzioni conservatrici (casa patriarcale, chiesa, mondo del lavoro) e il mondo immaginifico e aperto della società televisiva, alternativa utopica di liberazione identitaria; ma anche quello tra il mondo degli adulti, chiusi nelle loro regole e nelle loro posture socialmente accettate, e l’universo dei bambini, abitato dall’immaginazione e dalla possibilità.
Cruz funziona come una figura capace di viaggiare tra le dimensioni, un corpo adulto (l'attrice interpreta Clara, la madre di Adriana, picchiata dal marito violento) che abita i territori giocosi dell’infanzia, un’immagine che attraversa le cornici e si ritrova dall’altro lato dello schermo (assorbendo addirittura l’immagine in bianco e nero della Carrà); una figura quindi in grado di tematizzare il possibile rovesciamento dell’educazione costrittiva dei padri padroni in un mondo libero da costrizioni repressive e imposizioni generazionali. La scelta di imperniare sull’attrice l’idea di una contro storia dell’immaginario collettivo italiano anni 70 - in cui le immagini disinibite della televisione emergono come un contropotere al conservatorismo asfittico, responsabile della bonifica delle imperfezioni e delle eccentricità - funziona però fino a un certo punto, genera squilibri narrativi (fatali, per questo cinema bisognoso di narrazione lucida) e non permette al film di raggiungere né lo stato di affresco sociale con cui dare immagine sintetica di un’epoca, né la sottigliezza psicologica necessaria per raccontare la complessità emotiva e sensoriale provata dal personaggio principale, Adri. Il suo dramma, dichiarato a priori come il punto di ingresso teorico nel film ma rappresentato quasi solo per accenni, rimane per tutto il film un’occasione non approfondita, una storia possibile tra le tante raccontate, quasi dimenticata in un angolo in attesa di ricevere priorità in sede drammaturgica.
A nulla servono metafore approssimative (come quella della natura aliena del personaggio di Adri) o gli innesti narrativi (l’incontro con una bambina di un quartiere operaio): la complessità della storia della bambina non è mai resa attraverso un lavoro sull'interprete (non c'è lavoro sul volto e sul corpo ancora androgino di Luana Giuliani), sulle sfumature di senso, sulle distanze tra rappresentazione e personaggi (si pensi a un film come Tomboy, strutturato in maniera diversa ma simile nei punti di ingresso narrativi); piuttosto, viene evasa con l’accostamento continuo di monolitiche scene madri, che tutto riescono a fare – magari anche esaltare emotivamente con sottolineature concettuali in grana grossa - tranne che costruire il respiro orizzontale di un’unità-film, necessaria per sviluppare la profondità delle psicologie. Scene costruite ad hoc tagliano continuamente il piano narrativo cercando di produrre verticalità spettacolari (sono molte quelle che cercano “il momento”, su tutte la messa che si trasforma in concerto pop), ma mancano completamente di annodare le linee narrative che Crialese vorrebbe costruire in parallelo - le pulsioni individuali di Adri e le forme di repressione sociale collettiva – lasciando quindi sospese le questioni principali in un descrittivismo di costume che spesso si accontenta di soluzioni approssimative. Tutta la passione che può certo provenire e proviene dall’urgenza autobiografica si appanna così sotto scelte di comodo, che fanno molto rumore e non trovano nessun accordo intonato.