Blonde
Un biopic trasfigurato che si rivela riflessione importante sul sistema mediale del 900 in rapporto ai corpi che lo abitano, a partire dallo sguardo maschile sul soggetto femminile; il bisogno di assorbire l'intera sfera mediale sfiora l'autodistruzione ma restituisce un film-mondo.
«Body is reality», ricorda Crimes of the future nel tornare all’immanenza della carne, presenza essenziale nei processi umani di realtà, adattamento, sopravvivenza. Tuttavia, replica Blonde, «human body is meant to be seen»: essere visti o non essere, tertium non datur. Carne/sguardo, corpo/immagine. Aporia liminare.
Il primo a parlare con Norma Jeane Mortenson, nome di battesimo di Marylin Monroe, del potere certificante dello sguardo è Charles Chaplin Jr., mentre assieme a un altro junior e figlio negletto, erede di Edward G. Robinson, definiscono il campo del loro erotismo gemellare. Nel sesso i corpi si specchiano e guardano, deviano in forme visive distorte, curvature della carne tra Francis Bacon e David Lynch. Carne/sguardo, corpo/immagine.
Essere visti però significa anche accettare di esporsi all’altro, offrirsi, perché guardare è una forma di controllo e il soggetto guardato è sempre, in qualche forma, detenuto. Occorre una barriera che ci aiuti a sopravvivere all’erosione provocata dallo sguardo, dobbiamo erigere forme di difesa. Un doppio, magari. È qui che da Norma Jeane nasce Marylin, mitosi inseparabile, cronenberghiana di ritorno, in un film che gestisce il corpo come tessuto poroso, membrana fragile osservabile fin nei segni tracciati dai torrenti venosi, nell’intimità lunare.
L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford era già un film sul doppio, un pendolo oscillante tra due poli in cui ogni passaggio segnava il lento avverarsi di un desiderio di morte. Blonde, ritorno di Andrew Dominik al biopic trasfigurato, al racconto del mito nella sua corrispondenza e trascendenza mediale, riprende il tema e lo interiorizza: non più entità separate, Jesse e Robert, ma uno sdoppiamento interno al soggetto, una trasfigurazione quotidiana. Marylin Monroe non è altro che il tentativo di Norma Jeane di creare il suo ritratto di Dorian Grey, un’icona alter ego che possa filtrare gli effetti tossici e pervasivi dell’esposizione mediale, a partire da quello sguardo maschile esercitato in forme adoranti, penetranti, onnicomprensive, bocche deformate e occhi famelici. Norma Jeane si illude, ha bisogno di crederlo, che la membrana possa essere sufficiente; lo sguardo, però, è un filo a piombo incurante.
Potremmo definire Blonde un film di archeologia mediale, un lavoro di scavo tecnologico che resuscita reperti-immagine per offrirsi come film-mondo, opera mediale totale.
A un primo livello, Blonde è un film archeologico perché crea un ipertesto di immagini operanti storicamente, un fiume che si muove avanti e indietro nel tempo mescolando tracce eterogenee: cartoline, fotogrammi cinematografici, locandine, foto storiche e calendari, tutto collima nel flusso offerto dal film, gestito come un incubo ad alto tasso mediale. Ma questa successione ellittica, che balza da una ricostruzione filologica all’altra, non ha nulla del calco serigrafico. Blonde non nasce per rimuovere i depositi e gli strati iconografici e riportare alla luce l’umano. La gestione archeologica dei materiali serve piuttosto a lavorare dentro l’immagine, non oltre, perché per Dominik la dimensione umana del corpo più visto del ‘900, immortalato, voluto, stilizzato, è in sé una chimera, una mise en abyme di rappresentazioni cucite tra loro in un prontuario di cultura pop. Marylin è la sagoma liminare di processi di riproduzione meccanica e mercificazione del corpo che riguardano l’intero novecento: "Andy Warhol, Marilyn Monroe, 1967, serigrafia a colori". Prima e dopo la morte, come si fa a sopravvivere a ciò? a tornare umani?
Di qui il secondo spunto archeologico, il come dopo il cosa se volete: la volontà di rendersi film-mondo. Scartata l’opzione narrativa della ricostruzione psicologica, Dominik decide di concentrarsi sul sistema mediale in quanto tale, rete di dispositivi onnicomprensivi e demiurgici, aprendo il film alla collisione interna di formati, soluzioni cromatiche, stili di regia, punti macchina possibili e impossibili, un’emulsione continua delle più diverse frequenze appartenenti allo spettro cinematografico.
Combinando assieme questi due livelli di archeologia mediale – la raccolta eterogenea dei materiali e dei linguaggi, nel tentativo di rendere il film un riflesso dell’intera mediasfera – Dominik sembra trasformare il romanzo di Joyce Carol Oates in un meccanismo clinico, freddamente strumentale, ed è indubbio che il film rischi di operare addosso e contro Marylin in modo simile a quanto fatto dalle precedenti forme di spettacolarizzazione. Si pensi ai diversi eccessi che punteggiano il film, dalla scena presidenziale alla malagestione morale e visiva del tema della gravidanza, scelte con cui Dominik sembra dirci che il solo esito possibile per un film simile sia fagocitare sé stesso, sabotarsi internamente, come se il peccato originale della partecipazione alla sfera mediale vada scontato con un’espansione senza controllo. Ma il dato reale offerto dalla visione, questa restituzione di una vita che viene musealizzata nel momento stesso del suo farsi, offre altre prospettive, genera, nonostante l’impianto di partenza del film, dolore.
Uno dei grandi meriti di Blonde è il riuscire, in piena contraddizione alla sua natura cerebrale, ad offrire allo spettatore forme autentiche e profonde di disperazione, umanità, grazie al fatto di mostrare come per Norma Jeane non ci sia possibilità di fuga da Marylin, come oggi ancora non si possa pensare Norma Jeane se non nei termini di Marylin. Per questo Ana de Armas, che è bravissima, è sempre e comunque immagine, mai persona, perché l’obiettivo è produrre empatia mostrando non un dietro le quinte ma uno specchio che riflette l’icona stilizzata e nel processo si incrina, con uno stridio tra soggetto e immagine che genera dolore elettrico, inquieto, in un corpo che vuole scomparire mentre tutto il mondo osserva. Di qui l’intuizione che sorregge il film, e che fa sì che si possa ricevere e accettare Blonde pur nei suoi intenti incontrollati e autodistruttivi, ovvero l’identificazione tra saturazione di sguardo mediale e presenza maschile, una sovrapposizione di istanze per cui il corpo di Norma Jeane - Marylin è, e deve, risultare sempre e totalmente accessibile. In questi termini va letta l’ossessione scopica cui è soggetto il personaggio, un abuso patriarcale che deriva dal monopolio maschile dell’atto del guardare – con tutto il controllo che ne deriva. Per questo tutti gli uomini che Norma Jeane incontra nella sua vita agiscono con l’intenzione di ricoprire ogni ruolo disponibile: amanti, mariti, padri, tutto contemporaneamente, saturando lo spettro emozionale della donna al pari di quanto fanno i media, onnipresenti nell’ambiente che la, e ci, circonda.
Blonde è in tal senso un lungo resistere all’assedio, un film che sfida e provoca, opera grandi intuizioni e comunque perde il controllo, cedendo anche a soluzioni inaccettabili – il peso politico del feto parlante è estremo, soprattutto oggi alla luce della sentenza della Corte Costituzionale. Tuttavia proprio il suo carattere irrisolto, deforme, chiama al confronto e scomoda lo spettatore, nell’ambizione sfrenata di contenere, risolvere e contemporaneamente incarnare l’inferno mediale. Viene in mente la battuta finale di un altro film Netflix, pronunciata da un attore-regista che diede a Marylin il suo momento di rivalsa e ruolo migliore: «shoot 'em, shoot ‘em dead!».