La donna del mistero (Decision to Leave)
L'ultimo titolo di Park Chan-wook ha la misura del grande cinema, tra le levità e le tensioni di una storia d'amore colma di speranza e di un desiderio dalla forza abbacinante.
Sulla vista di una montagna di sabbia che si rompe rovinosamente colpita da un’onda, si concentra forse il momento decisivo delle immagini di La donna del mistero (Decision to Leave), punto di emersione delle sue vibrazioni più forti. Un momento rapidissimo, apparentemente quasi insignificante nella logica del montato concitato dell'ultima parte. Con un impatto, uno schianto che nel tentativo di scavalcare un ostacolo, lo butta giù. Un ostacolo della vista, soprattutto: quella dello spettatore, a cui la montagna di sabbia nega l’immagine luminosa del sole al tramonto. Al di sotto, nel fuoricampo, giace in una buca il corpo di una donna, svenuta sotto i colpi del fentanyl. È Tang Wei nei panni di Seo Rae, femme fatale sospetta del doppio omicidio di due uomini, suo marito e il successivo compagno, e perdutamente innamorata del detective che le dà la caccia, Hae-jun. Quello che appare come un’occlusione della vista spettatoriale, al contrario diventa nella sua proiezione emotiva, nel suo andare al cuore dello spettatore, dopo tutto il vorticare di segni e di aspettative costruite lungo la visione, una sorta di parete difensiva, lo scudo tra il corpo esausto della donna e la fine tragica che l’attende. Noi non vogliamo che l’onda d’urto delle acque oceaniche scavalchi, rompa il muro di sabbia, non vogliamo che raggiunga il corpo di Seo Rae, che le pareti umide cedano tutt’intorno e finiscano per soffocarla, inumarla. È l’immagine di una speranza disperata che, mostrando il suo cedimento, si fa al contrario più dura, più autentica.
Tra le sue configurazioni rappresentative, il cinema è sempre stato perlopiù un fatto di storie d’amore. E abbiamo sempre cercato, tra le sue immagini, quelle che tengono vive, custodiscono falde di desiderio, quindi di ostinazione affinché questo venga esperito. A guadagnarne in intensità, inevitabilmente, sono in particolare quelle che vedono l’approssimarsi di un esito tragico. Come per Seo Rae e Hae-jun, fregati dai rispettivi ruoli a cui vogliono ingenuamente, cioè romanticamente, inutilmente, dare la forma di un gioco tra guardie e ladri per giustificare il bisogno reciproco l’uno dell’altra. Park Chan-Wook sta già da tempo dentro questo solco, ma ne beneficia ora maggiormente perché sembra non guazzarci più con quella voracità godereccia di una volta (quella neanche troppo remota di Mademoiselle, del 2016), nella forma, nella tecnica, nella narrazione. L’oggetto di un concupito attorno al quale si arrovella e vortica in forma tentacolare una storia, con le sue immagini e le sue piroette, si è fatto meno bulimico, il suo movimento meno avulso. E asciugandosi, anche più ruvido (che è essenzialmente un bene).
Il gioco a perdere e la natura resistiva, contrastiva del rapporto impossibile tra Seo Rae e Hae-jun, che ci aspettiamo si faccia rutilante, infuriare da cauchemardesque, soggiace invece sull’azzurro marino di una carta da parati, sulle ombrature pervinca, si posa sul blu dei tendaggi e sulle variazioni che sfumano incertamente fino alle cromie del verde. Come l’oceano. Come il vestito di Seo Rae, che agli occhi di Hae-jun appare verde, ma “guardando meglio” (lo ammonisce la donna) è invece blu. Non smottamenti, ma smorzamenti. Che non vuol dire cedere il passo alla cadenza del valzer alla Wong Kar-wai, ma produrre tensione nelle impercettibilità delle variazioni di sguardo, e di più, nella rilocazione straniata del dispositivo (nascosto, dentro gli oggetti, persino dentro lo schermo di un telefono), nell’oscurità di un linguaggio bifronte, tra cinese e coreano, nelle farciture action da poliziesco che rilevano la falsa apparenza di rotture definitive, un falso movimento.
Anche se poi, il movimento c’è, pure con qualche acrobazia e contorsione (poi anche contusioni dei corpi, tagli sul viso). Il punto però è che l’evidenza di un dramma più smaccato, sanguinoso, se posta accanto a quello che conosciamo dell'autore coreano, è messa ora alle corde, a tratti persino confinata dentro lo schermo di una televisione, cioè dentro il dramma in costume del samurai che tiene l’amata morente tra le braccia, a cui Seo Rae partecipa piangendo dal divano (ecco, soltanto ora vestita di rosso, lontana dagli spazi e dalle azioni delittuose). Mentre la stringa di realtà in cui Seo Rae incontra, come può, Hae-jun ha a che fare, piuttosto, coi luoghi della cucina (con la preparazione di piatti tipicamente cinesi ad opera del detective), delle visite nei templi e del gusto sartoriale di Hae-jun a cui Seo Rae pone meticolosa attenzione. Un’applicazione di traduzione sullo smartphone garantisce che nel passaggio dal cinese al coreano i due non si perdano nulla del loro flirt. Sullo smartwatch entrambi registrano la propria voce come testimonianze diaristiche, che poi rivelano in cuffia l’uno all’altro. Ecco però che quando le cose non possono più procedere secondo la formula stabilita da entrambi, anche in luogo di questi dispositivi e di queste soluzioni si sostituisce l’insindacabilità di uno spettro emotivo che non può essere informatizzato. “Hai detto di amarmi”, afferma al telefono Seo Rae. Ma Hae-jun non ne ha memoria, e neppure nelle registrazioni telefoniche ve n’è traccia. Qual è la verità? Un nodo alla gola. E Park Chan-wook, che ben conosce le vie per annegare la verità dentro immagini liquide, dopo aver lasciato le onde del mare come solo sfondo, pattern che riveste le pareti della casa di Hae-Jun (con un'ambiguità di rappresentazione che rimanderebbe anche a delle montagne, altro luogo fondamentale nel film), dunque immagine del presagio funesto, le porta a scavalcare infine la superficie (come dicevamo in apertura): le onde dell’oceano diventano reali, blu e verdi, acque torbide come l’amore che stanno per investire. Da immagine del presagio a immagine di un sensuoso colmo di dolore e di fiducia disperata. E dentro di esse, Decision to Leave fa allora il polar, il thriller, il dramma classico hollywoodiano, il film d’amore struggente. E' tutto questo e di più, con la cura certosina e il gran cuore del cinema maiuscolo di Park Chan-wook.