Long Day's Journey into Night

di Bi Gan

Bi Gan è il nuovo talento del cinema cinese contemporaneo, e quest’opera seconda sospesa tra genere, espressione estetica e riflessione metalinguistica sul dispositivo lo conferma pienamente.

Long Day’s Journey into the Night - recensione film

Un film liquido come i ricordi, inafferrabile come il tempo. Un film di evanescenze e mistero, intriso di atmosfere notturne rarefatte, malinconie sfuggenti e cortocircuiti della memoria. L’opera seconda del nuovo talento del cinema cinese Bi Gan è un melò a tinte noir in stato di ipnosi, sulle tracce di qualcosa che non c’è più, di un passato da ricomporre e di identità perdute – specchio della Cina contemporanea e dei suoi fantasmi, lanciata verso il futuro ma ancora in bilico sul passato. Long Day’s Journey into Night è un oggetto prismatico che si lascia guardare da più versi, che si scompone e ricompone sotto gli occhi come in uno stato di veglia apparente, in un flusso subcosciente di sequenze incorporee, fluide, dilatate. Un moto senza tempo, come fluttuante nella dimensione di un sogno, lì dove «i sogni sono memorie perdute».

Tutta la prima parte del film segue l’incedere sfasato di un passato-presente indefinito, fatto di brandelli di narrazioni disperse: il (probabile) gangster Luo Hongwu (Huang Jute), il ritorno alla sua città natale dopo la morte del padre, un omicidio irrisolto, la madre scomparsa e soprattutto un’amante perduta. Fatale, misteriosa, forse solo immaginata. Così entriamo dentro le trame nostalgiche di un blues (nuovamente) ambientato a Kaili, con gli interni umidi e i neon pulsanti, avvolti in memorie elettriche e sogni vividi.
Bi Gan si muove dentro un universo poetico estetizzante e raffinato, plasmato attraverso la ricercatezza delle luci e delle ombre, delle scenografie, delle inquadrature e dei movimenti di macchina sinuosi e calibratissimi che sin dalla sua opera prima - quel Kaili Blues acclamato a Locarno - avevano rivelato l’autorialità e le ambizioni di un regista che guarda a Tarkovskij come a Wong Kar-wai. Giovanissimo, classe 1989, Bi Gan è capace di dare corpo a qualità ontologicamente cinematografiche: il sentimento del tempo, la memoria e il sogno sconfinano l’uno nell’altra e sono esposte attraverso una poetica sospesa sui vuoti di una scrittura che si scarnifica solo per dare suggestioni ed esaltare il cinema nella sua fascinazione visiva, per mostrare più che per dire.

Le immagini sfuggono lungo i bordi tra verità e immaginazione e non c’è argine di contenimento. In questa oscillazione il film sembra continuamente chiedersi quanti altri film la memoria possa rendere possibili, nella sua intermittenza, nei falsi movimenti e negli squarci emotivi che apre. Un film sul cinema, dentro il cinema, che indaga e gira su sé stesso (come la racchetta da ping pong che nel finale sembra diventare la bacchetta magica del protagonista) perché al regista non serve altro che credere al mezzo cinematografico come dispositivo incantatore e dunque ingannatore, che amplifica sogni ed evoca i nostri fantasmi, le cose rimaste in sospeso in un tempo liquido che non smette mai di esserci presente. Se la prima parte allora galleggia nel magma ondivago della reminiscenza, la seconda affonda in un mirabolante piano sequenza in 3D - per saldare nel continuum del presente, continuamente rimandato, la sfuggevolezza del passato e ricomporre così i frammenti perduti di una detection amorosa (im)possibile. L’ora finale comincia come un film nel film, quando Luo entra in un cinema, indossa gli occhiali e forse si addormenta, chiedendo allo spettatore di seguirlo. Si perde, si ritrova, vola e finalmente trova ciò che stava cercando. O forse no, è solo qualcuna che le somiglia.

È un film che vive due volte, Long Day's Journey into Night, un film che si dà come enigma ma in cui in fondo non c’è enigma da risolvere perché ciò che chiede allo spettatore è più di ogni altra cosa di immergersi in un viaggio vertiginoso dentro la notte, dentro il sogno, dentro la meraviglia. Tra virtuosismi di regia, sospensioni aeree, immersioni totalizzanti nelle attrazioni delle immagini, Bi Gan ci accompagna dentro un sogno (lucido) di futuro e ci lascia fluttuare come il protagonista nell’emozione che le possibilità magiche del mezzo sanno creare.
Ambizioso e smisurato forse ma sotto la superficie si vede un sentimento del cinema che è prima cuore che maniera.

Autore: Tamara Gasparini
Pubblicato il 07/07/2020
Cina, Francia 2018
Regia: Bi Gan
Durata: 138 minuti

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