C’è un uomo che guarda una goccia. Ne osserva la difficile creazione. Porzione di acqua che si allunga e si ritrae sul bordo circolare di un enorme lavandino. Sembra cadere ma qualcosa la trattiene. Tra il definitivo distacco e crollo nell’imbuto della povertà e un minuscolo, quanto esile, segno di sopravvivenza, passa il tempo in un ansioso “precariato”.
C’è una goccia che cade. L’uomo continua a guardarla cadere. Nel suo perpendicolare cammino, tra la sua traslucenza, l’uomo intravede sagome che lo circondano. Immagini di palazzi vetrati, luoghi di esistenze lavorative, miserabili futuri. Allora l’uomo invidia la goccia, che ormai ha avuto il coraggio di abbandonare il suo ansioso stato di “precariato”. L’uomo non può. L’uomo non riesce. La “flessibilità” gli vieta di abbandonarsi, trattenendolo con le sue “false” definizioni.
La legge 30 (o legge Biagi), è una legge di riforma del mercato del lavoro varata durante il secondo governo Berlusconi. È una legge che si insinua nella sussistenza, tra il consumo di massa. È una legge che ci gestisce e sulla quale riversare tante lacrime e imprecazioni. È una legge che modifica ed amplifica un’altra legge. La complica. Gestisce la contrattualità lavorativa, crea la “sacrosanta” flessibilità lavorativa. Somministrazione, apprendistato, contratto di lavoro tripartito, accessorio, occasionale, a progetto, a chiamata. Definizioni ingarbugliate, molteplici, false – alla fine: “Chi ha denaro paga, ma mai di persona”. Aziende che adoperano la nuova norma contrattuale, che assumo dipendenti in esubero non rispettando la normativa sull’equivalenza tra il numero dei lavoratori assunti per un tempo “indeterminato” e i “precari”, sempre maggiori di numero. Aziende che pagano a cottimo, incastonate in specchianti palazzi urbani affogati nel cemento dei centri commerciali. Aziende come l’Atesia. Sotto i 25 secondi? Grazie, hai lavorato gratis. Sopra i 2 minuti e 40? Bravo, ti paghiamo 85 centesimi lordi. Se parli di più, non guadagni altrettanto. Senza malattia, indennità sull’infortunio, senza ferie ma soprattutto senza rappresentanza sindacale, allora si, sei un “Copper”, cioè un “morto di fame”, definizione aziendalista di target mediatici.
Con Parole sante, documentario di un Ascanio Celestini all’epoca, il 2007, al suo secondo lavoro cinematografico non di finzione dopo Senza paura (2004), l’autore-regista-attore romano – questo stesso documentario diventerà, nell’abituale commistione di linguaggi e mezzi a cui ci ha abituato Celestini, gli omonimi album e libro editi entrambi con Fandango – torna a parlare, o meglio, a far parlare, un mondo, un universo umano e una realtà lavorativa. Uomini “Santi”, matti, come nell’ultima sua opera cinematografica appena uscita nelle sale e presentata trionfalmente a Venezia, La pecora nera, sani ma “Santi”, in quanto “Santa” è la loro esistenza. Ma anche le parole acquistano beatificazione. E quando Ascanio Celestini torna a parlare, la parola acquista santità. È il Verbo di chi l’ha definito il “Pasolini del XXI° secolo”. Ma lui non ci tiene ai confronti, fuggendo da facili parallelismi: “Non penso che potrà mai esserci un Pasolini 2 o 3 come accade a personaggi come Rocky e Rambo (…) Mi piace il suo atteggiamento che non è quello di chi guarda il microbo attraverso il microscopio, bensì vive e partecipa la sua osservazione dell’altro”. Ed Ascanio effettivamente tocca, entra all’interno del collettivo PrecariAtesia ed ascolta ancor prima di domandare, lascia che gli altri si raccontino, si sfoghino, ribadiscano.
Momenti di silenziosa protesta, tambureggianti ingiustizie, danno vita e principio al collettivo. Un’unica rivendicazione: essere riconosciuti come lavoratori e non pagare di tasca propria, a causa della mancanza di riconoscimenti, le agevolazioni previdenziali che tale legge implica. “La libertà và difesa, non riconquistata”, questo è il motto di Michele, uno dei rappresentanti del collettivo PrecariAtesia, costretto, insieme a tante altre voci, a dover riconquistare principi civili accertati, combattuti, sudati. Vincoli dialettici, definizioni contrattuali altisonanti e variegate, voci e parole non “Sante” ma “convenienti” e poi per chi? Per i lavoratori? No. Per i sindacati? Neanche, loro possono solo riappacificare le parti, non scontentando nessuno, con loro, nessuno paga, non può essere fatta giustizia. Allora, forse, è conveniente per le aziende?….
La goccia è caduta. Si è sciolta tra le altre che l’hanno preceduta. L’uomo continua a guardarla ma non riesce più a riconoscerla. Si è persa nel mare. Adesso l’uomo non la può più invidiare. Un goccia si distingue quando ancora non molla la presa, quando ancora rimane agganciata a quel principio di vita. Ormai non si appartiene più. Non è più distinguibile. L’uomo riflette: non vuole fare la sua stessa fine.