“Mira Victor, Madrid!”, è una frase dell’indimenticabile sequenza iniziale di Carne tremula (1997). Siamo negli anni 70, uno dei protagonisti, Victor, viene alla luce dentro un autobus della città, mentre la storia del Paese vive uno dei momenti più drammatici sotto la dittatura di Franco. Poi il melodramma, le passioni, gli omicidi. Ma sullo sfondo la Storia. E il piccolo, il privato, si intreccia con i grandi drammi della Spagna di Pedro Almodóvar. Stesso procedimento avviene nel suo ultimo bellissimo, Madres paralelas, film d’apertura di Venezia 78. Le pagine più buie della dittatura che ha traumatizzato la nazione iberica, fanno da sfondo, aprono e chiudono la storia di due donne che parallelamente diventano madri, intrecciando irrimediabilmente i loro destini, imparando l’una a prendersi cura dell’altra. E soprattutto a fare tesoro della memoria storica.
Janis (Penelope Cruz) è una fotografa di successo che decide di portare avanti la gravidanza nonostante la relazione con il compagno sia già finita. Ana è un’adolescente spaventata dalla gravidanza e dall’idea di avere un figlio, madre single e con un segreto doloroso alle spalle. Partoriscono due bambine lo stesso giorno e sono compagne di stanza, Janis aiuta Ana a prendere consapevolezza del grande cambiamento, ma quello che accadrà le renderà indissolubilmente unite.
Almodóvar, cognome ormai brand, marchio di un cinema vermiglio, fatto di toni accesi, lacrime, amore, vita e morte, questa volta torna a essere politico dopo il suo film più intimo e privato, il testamentario Dolor y Gloria. Qui invita a fare tesoro del passato e a non perdere la memoria storica del paese affinché le generazioni future possano trarne insegnamento. Le madri sono parallele non solo per aver dato alla luce due bambine lo stesso giorno, condividono un percorso di violenza che viene dal passato: Janis nella vicenda familiare del bisnonno ucciso durante la Guerra Civile e gettato nella fossa comune, Ana dal padre di sua figlia che aveva approfittato di lei insieme ad altri uomini. Dopo un terribile errore e una tragedia inattesa le due donne si trovano a confrontarsi e a imparare da ciò che è stato affinché proprio quella piccola creatura rappresenti il domani che non perde le radici. Quelle radici a cui il protagonista di Dolor y Gloria, e perciò il regista stesso, tornava con i ricordi e con le cicatrici.
L’amicizia tra le due donne si fa intima, sboccia forse un amore, una passione nata da un legame doloroso. Ancora una volta Almodóvar si affida a figure femminili potenti, portatrici sempre di una verità assoluta nella tragicità della vita. Le donne del regista spagnolo sono decane del sentimento e qui ancora una volta Penelope Cruz si fa corpo di un cinema che ricorda e omaggia le protagoniste di Elia Kazan, Douglas Sirk e Federico Fellini, solo per citarne alcuni. Janis insegna ad Ana come diventare donna, insegna l’importanza di quello che è avvenuto per non perderne traccia. E la Spagna è l’ulteriore madre parallela di questo film, una paese presente nella grande Storia e nella piccola tradizione, come in quella tortilla de patatas che le protagoniste consumano a cena.
Non è una novità poi che il regista sottolinei l’importanza di un discorso femminista (come si vede esplicitamente scritto sulla maglietta di Janis), d’altronde la sua filmografia tratteggia da sempre dei racconti di forte consapevolezza e discorso politico e sociale sulle donne attraverso il privato, il piccolo. Se è ancora possibile credere che il privato possa essere politico, Madrid o quella Spagna del passato che Almodóvar ci invita a guardare, sono i grembi che accolgono i figli di ciò che siamo stati e perciò il domani.