Bangla
Al suo esordio cinematografico, Phaim Bhuyin realizza un omaggio imperfetto ma viscerale dedicato a un quartiere brulicante di vita e contraddizioni culturali.
C’è in Bangla un’urgenza espressiva che a stento si trattiene entro l’inquadratura, cannibalizza le situazioni, i personaggi, la scrittura filmica. Il desiderio di raccontare il mondo multietnico di Torpignattara tramite la storia di un ragazzo italiano di origini bengalesi – Phaim Bhuyin, che dirige se stesso in questa sua opera prima – traspare violentemente dal racconto autoironico in prima persona del suo personaggio principale, divenendone il principale punto forte. Nonché il maggior punto debole.
Non si negheranno infatti qui tutti i difetti e le sbavature di un esordio cinematografico tanto interessante quanto imperfetto, benché il soggetto basti a richiamare l’attenzione dello spettatore. Le vicende di Phaim, diviso fra quel “50% bangla, 50% italiano” descrivono un’intima spaccatura culturale che si mantiene irrisolta sotto l’apparente pacifico senso di appartenenza - quel “100% Torpignattara” - che il ragazzo prova verso il proprio quartiere, entro il quale si sente perfettamente inserito. L’indizio più evidente di questa nascosta frattura sta negli impulsi sessuali che egli sente e trattiene allo stesso tempo, costretto dalla propria educazione a obbedire ai dettami pudibondi della sua religione musulmana. A questo punto il racconto non può esimersi dall’introdurre una ragazza che rivoluzioni la vita del protagonista, ed ecco Asia (Carlotta Antonelli), giovane, bella e disinibita, perfetto elemento di disturbo atto a incrinare il precario equilibrio con cui Phaim viveva le contraddizioni culturali della sua esistenza. Attraverso il desiderio a volte comicamente terrorizzato verso di lei emergono la voglia e la paura di rinnegare le proprie origini fatte anche di assidua sottintesa obbedienza a una famiglia e a una filosofia di vita che richiedono la ricerca di un buon lavoro e il perseguimento di un matrimonio tradizionale con una donna dalle medesime origini.
Benché Bangla sia una commedia, e faccia anzi continuamente leva sull’ostentata simpatia delle battute e delle circostanze, il suo nodo è drammatico e apparentemente irrisolvibile. Scegliere la famiglia significa perdere la ragazza amata, e con essa la possibilità di vivere liberamente la propria vita; scegliere l’amore comporta il rischio di una rottura irrimediabile con le proprie radici fatte di religioni, cibo, lingua, e tutto ciò che rappresenta per un individuo la famiglia di appartenenza. Il Phaim protagonista come il Phaim regista non sceglie, e Bangla rimane onestamente ai margini a osservare il presente senza risposte di “un casino bellissimo”.
Peccato che anche il film stesso si riveli di frequente un bel casino, viziato dalla recitazione troppo meccanica del regista e da sequenze eccessivamente artificiose. Bangla cerca di mettere parecchia carne a fuoco: vuol raccontare un quartiere, una dimensione culturale multietnica e una storia d’amore, ma perde sovente i pezzi e rimedia accontentandosi dello stereotipo. Il ruolo di Asia appare troppo spesso più un mero simbolo di entropia femminile che personaggio reale, e la descrizione della sua famiglia– in cui Pietro Sermonti appare nelle vesti del padre – è pura macchietta che aderisce al luogo comune oggi tanto diffuso dei radical chic alternativi impegnati di sinistra con la famiglia allargata. D’altra parte il vero protagonista di Bangla è pur sempre Torpignattara e le sue innumerevoli comparse composte da vecchi al bar, hipster che fanno l’aperitivo e immigrati di prima e seconda generazione che parlano italiano chi benissimo e chi malissimo: una convivenza di tinte e sapori che sa essere per gli occhi un ritratto impressionista dipinto con rapide pennellate di colori dinamici ed eterogenei. Il pregio maggiore di quest’opera prima, dal livello qualitativo certamente altalenante, rimane allora una degna percentuale di onestà narrativa che non limita il film a una storia divertente e assai furba per l’uso dei soliti stilemi accattivanti – la parlata popolare, il quartiere multietnico alla moda, il protagonista “sfigato” e insicuro con le donne – ma gli assegna un sottotono drammatico tale da fare di Bangla un racconto meno superficiale di quel potrebbe sembrare a prima vista.