Per riuscire a vivere a pieno l’esperienza di Piano sul Pianeta (malgrado tutto, coraggio Francesco!) si deve abbandonare il percorso usuale di fruizione di un’opera. Inutile cercare di capire, di leggere i segni. Non c’è decodifica di un messaggio. Quello che il regista vuole e, in alcuni momenti, riesce ad ottenere dallo spettatore, è un completo abbandono: prima alle suggestioni dei suoni della natura, delle immagini in bianco e nero, delle lente panoramiche su operatori e normali visitatori di quello che sembra un parco come un altro; poi alle sensazioni di angoscia e paura trasmesse dai protagonisti, misteriose entità la cui voce è sempre off.
Questi ectoplasmi senza storia si osservano, camminano, dormono. Sono chiusi all’interno di spazi aperti, hanno reti e cancelli a dividerli dal mondo urbano, così diverso dai giardini di questa villa inquietante. Cercano un rifugio dal freddo, ed è Francesco, enigmatico ragazzo col bastone, ad indicare loro la via. Li ascolta, li nutre, li comprende. Condivide la loro alienazione. Non era un parco come un altro. È quello di Santa Maria della Pietà, l’ex manicomio di Roma Nord chiuso con la legge Basaglia. Un luogo che è stato più volte raccontato, la cui storia è stata ricostruita attraverso inchieste e documentari. Ma mai gli era stato dedicato una docu-fiction, o un “docu-poem”, se così vogliamo chiamarlo. Ci ha pensato Fabrizio Ferraro, che con la sua precedente opera Je suis Simone (la condition ouvrière) aveva già dimostrato il suo interesse per l’ibridazione dei generi con il fine ultimo di liberarsi della definizione di genere, così come di qualunque altra regola già stabilita per la narrazione filmica. Non si racconta una storia ma si tenta di coinvolgere, di creare una collaborazione tra chi parla e chi ascolta, che certo non si dimostra accessibile a qualunque tipo di pubblico. Ma il pubblico per Ferraro, come spiega nell’intervista che trovate su queste pagine, è solo un’altra delle categorie prestabilite che ostacolano il linguaggio umano, che può trovare attraverso il mezzo cinematografico ben altri modi per diffondersi che quelli della classica costruzione drammaturgica.
D’altronde, se il padiglione 12 del Santa Maria della Pietà era destinato a coloro che manifestavano tendenze suicide o che provavano a fuggire, lo spunto per riflettere su cosa è normale e cosa è folle si coglie immediatamente. Ribellarsi alle regole, alle convenzioni, non è una scelta sana. Si è pericolosi per se stessi e per gli altri. Un po’ follemente, Ferraro si ribella a tutte le convenzioni, affronta i suoi rischi e dipinge un quadro davvero insolito, silenzioso e desolante. Quale sia l’effetto finale dell’esperimento è impossibile descriverlo. Bisogna vederlo e sentirlo, lasciarsi trasportare dai lunghi piani sequenza, osservare i volti intensi dei protagonisti, entrare nell’atmosfera paranoica di un’opera che tutto cerca, fuorché una definizione precisa che la intrappoli. O meglio che la interni.