Twilight of the Warriors: Walled In

di Pou-Soi Cheang

Ossimori e disarmonie invadono le immagini di Pou-Soi Cheang, parossistiche rappresentazioni dell’esasperata (dis)evoluzione di una metropoli che ha visto scomparire il suo orizzonte e la dicotomia con il mondo rurale.

Twilight of the Warriors: Walled In - recensione film Soi Cheang

Presentato in anteprima europea in occasione della “Midnight screenings” alla settantasettesima edizione del Festival di Cannes, Twilight of the Warriors: Walled In è il nuovo film del regista honkongese Pou-Soi Cheang.
Dopo il multiforme e assolutamente non inquadrabile Mad Fate (lanciato in anteprima mondiale al settantatreesimo Festival del cinema di Berlino), che in un certo senso sembrava accogliere, a suo modo, una tendenza ormai consolidata nelle produzioni cantonesi (basti pensare all’allucinogeno Peg O’ my heart di Nick Cheung, passato per Udine all’ultimo Far East Film Festival) di ritorno a un certo tipo di narrazione fortemente incentrata su credenze tipiche del retroterra rurale della città – molti dei film etichettati come “Categoria III” (un largo uso di elementi scabrosi) facevano leva su questo tipo di componenti. Elementi squisitamente religiosi e dichiaratamente anacronistici, in un ricorso sistematico ad amuleti, rituali sciamanici e sedute spiritiche. Un disperato ultimo slancio alla ricerca di una identità culturale che sembra ormai troppo lontana. Uno spirito che ha sempre caratterizzato gli horror fantasmatici – con cui lo stesso regista ha dato il via alla sua carriera a fine anni 90, inizio 2000 – e le produzioni di serie B.

Sono passati ventisette anni dal 1997, ed è evidenza comune a Hong Kong, per chi l’Handover lo subì sulla sua pelle, a non voler accettare, o perlomeno passivamente subire, le conseguenze del passaggio sotto il controllo della Mainland cinese. E se negli anni molti registi già affermati, che furono simbolo fulgido della golden age hongkongese, hanno cercato a loro modo di reagire al cambio di rotta - basti pensare ai viaggi oltreoceano di John Woo, al graduale avvicinamento di Tsui Hark alle megaproduzioni della "madrepatria", alla costante radicalizzazione e astrattismo dello stile in Johnnie To - c’è chi, supportato dalle maggiori (e ultime rimaste) case di produzione cantonesi, ha deciso di reagire e piantare saldamente i piedi a terra.
Twilight of the Warriors: Walled In si presenta quindi come un ulteriore tassello all’interno di questo processo di orgogliosa lotta culturale che il suo regista, Soi Cheang, sembra aver intrapreso negli ultimi anni, dal bellissimo e spiazzante Limbo. Un thriller a tinte nerissime, in un bianco e nero di rara potenza figurativa, che nel 2021 aveva fatto balzare sulla sedia gli amanti del cinema hongkongese, risvegliando in molti la speranza (drasticamente mal riposta) di una possibile rinascita.
Se, come detto in precedenza, gli ultimi brandelli di coscienza popolare, nella maggior parte delle produzioni, sembrano risiedere all’interno di gestualità, rituali e fantocci, dal valore puramente simbolico e pittoresco, i film di Pou-Soi Cheang sembrano trarre forza dalla storia stessa della città. Dai muri e dalle fondamenta che hanno contributo, negli anni antecedenti all’Handover, a elevare Hong Kong tra le più grandi metropoli del mondo, quale simbolo tecnologico e polo finanziario per tutta l'area sudorientale.

walled

Siamo nei primi anni 80, periodo in cui molte persone provenienti dalla mainland cercano in tutti i modi di entrare, legalmente e non, a Hong Kong. Esuli della rivoluzione culturale in cerca di una possibile rinascita, nell’unico posto in grado di offrire loro la possibilità di cambiare vita.
Chan Lok Kwan è un ramingo come molti altri, un guerriero senza patria e padrone che si guadagna da vivere combattendo in incontri organizzati dalla triade locale, comandata da Mr. Big (Sammo Hung), uno dei pochi superstiti delle prime guerre tra clan nella zona. Le circostanze porteranno Chan Lok Kwan a rifugiarsi nel complesso di Walled City – realmente esistita, la città murata di Kowloon nel 1990 contava quasi 50 mila abitanti - un agglomerato multiculturale di case, negozi e bordelli, controllato dal boss della triade Torando (Louis Koo), veterano di sanguinose battaglie di strada e maestro di arti marziali.
Il destino di Chan Lok Kwan - «it’s the goddamn fate» si dirà ad un certo punto - incrocerà quello degli abitanti di Walled City, riportando alla luce ferite passate e vendette non ancora consumate.

Twilight of the Warriors rappresenta la volontà di Pou-Soi Cheang di riappropriarsi di ciò che andò perso nel 97, nel tentativo di ristabilire una connessione con quel glorioso passato che rese grande la città. Tutto questo lo fa passando da uno dei luoghi più caratteristici: Walled City-Kowloon. Un santuario che porta sui suoi muri, come fossero cicatrici sul corpo, i segni di un passaggio d'epoca, dal periodo in cui Hong Kong poteva ancora ritenersi polo culturale del continente asiatico, simbolo virtuoso e modello economico. Una riconquista che passa direttamente dalla Storia, abbandonando per strada i rituali e i feticci, per tornare ad affidare il proprio destino alla danza mortale delle arti marziali. Una città che torna a respirare, un vento che si insinua tra gli ultimi spiragli urbani rimasti, per risollevare ciò che è rimasto sotto le ceneri di una città ormai morta.
Ossimori e disarmonie invadono così le immagini di Pou-Soi Cheang, parossistiche rappresentazioni dell’esasperata (dis)evoluzione di una metropoli che ha visto pian piano scomparire il suo orizzonte, e la dicotomia con il mondo rurale. Inglobato all’interno della rete urbana, il rimanente substrato agreste ha cominciato ad emergere dal di dentro come un virus, creando purulente escrescenze urbanistiche come il complesso di Kowloon. Disallineamenti nello skyline di Hong Kong, che portano con sé il peso della Storia.

Twilight of the Warriors: Walled In, inoltre, si dimostra un’opera in grado di modificare e reindirizzare i dettami della grammatica narrativa delle produzioni cantonesi, riuscendo a inserirsi all’interno di un dialogo stilistico che in occidente vede nella saga di John Wick il suo più virtuoso rappresentante. Intercettando, seppur lateralmente, un’idea di cinema che non nasconde la volontà di voler ampliare il suo raggio di influenze transmediali, arrivando ad accogliere un confronto anche con il mondo del videogame: per gli amanti del genere, molti spunti del film ricordano SIFU, un videogioco di arti marziali che già al suo interno conteneva chiari riferimenti al mondo cinematografico, tra Oldboy e The Raid – una struttura verticale, quella dei film di Gareth Evans, chiaramente ripresa e rimodella da Soi Cheang, tra la fisiognomica e il puro astrattismo dei corpi. In un flusso senza sosta di idee e rimandi che vede, di anno in anno, assottigliarsi sempre più la distanza tra i due universi.

«Hong Kong changes in the blink of an eye. Building are constantly being rebuilt». Un film che evidenzia, forse definitivamente, l’enorme talento di un regista in grado di non abbassare la testa nemmeno all’interno di contesti produttivi dettati dalla nuova "madrepatria" cinese, dimostrando che un cinema libero ad HK è ancora possibile, in grado di librarsi al di sopra degli immensi grattacieli, per poter tornare ad ammirare la città dall’alto.

Autore: Emanuele Polverino
Pubblicato il 13/05/2024
Hong Kong 2024
Durata: 125 minuti

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