Throw Down
Cadere e rinascere. Throw Down mette in scena il desiderio di vivere, mettersi in gioco, rialzare lo sguardo
Sze-To è un ex campione di judo che ha perso ogni voglia di combattere e passa le sue giornate a bere e a gestire (male) un locale notturno di dubbia qualità. Anche Mona è stata sconfitta: non è mai riuscita a sfondare nel mondo dello spettacolo e la sua vita, complice un manager senza scrupoli, è arrivata ad un passo dal baratro. E poi c’è Tony, che ha semplicemente il desiderio di sfidare tutti I campioni di judo della città. Spesso vince, a volte viene sconfitto, ma si rialza sempre e non vede l’ora di combattere di nuovo.
Restaurato di recente dal Far East Film Festival in collaborazione con l’Immagine Ritrovata di Bologna, Throw Down è ancora oggi una delle vette più alte nell’opera dell’autore di Hong Kong, una visione di impeccabile solidità estetica e di emozionante vitalità. Se dovessimo descrivere Throw Down (2004) in una sola frase, diremmo che il film di Johnnie To è la storia di come ogni sconfitta non sia mai definitiva e contenga in sé, come nel simbolo del Dao, il seme del proprio opposto. E il film sembra quasi in opposizione rispetto alla maggior parte dei film per cui To è noto a livello internazionale, come il precedente P.T.U. (2003), nerissimo thriller dalla cui gravitas sembrava impossibile sfuggire. In realtà, i due lungometraggi dialogano tra loro a più livelli, in quanto tasselli di una generale enciclopedia di Hong Kong e del suo posto nel mondo.
Il linguaggio cinematografico di Throw Down, come la filmografia di To in generale, è sorprendentemente eclettico, trovandosi al crocevia di generi come la commedia, il noir, il film di arti marziali e il melodramma. I tre protagonisti, e tutti gli altri personaggi che costellano una storia di sconfitte liberanti e di rinascite inaspettate, vivono in un mondo duro e, per certi versi, decaduto: una Hong Kong a sua volta caduta a terra, sviluppata tra vicoli e ambienti chiusi. Eppure, c’è sempre spazio per rialzarsi, per uscire dai vicoli soffocanti, per un rematch con il mondo della vita: il judo si fa metafora delle sconfitte quotidiane, grandi e piccole. Le arti marziali, in generale, sono giocosamente messe in scena come allenamento per imparare a cadere nel modo corretto, per essere pronti a rialzarsi. C’è anche lo spazio per ridere, per costruire sequenze di grande virtuosismo tecnico come la grande resa dei conti, quasi del tutto verbale, tra I tre protagonisti e I fantasmi dei rispettivi passati. Un grande gioco che non nasconde, tuttavia, l’urgenza di raccontare qualcosa del mondo contemporaneo. Qualcosa di difficilmente verbalizzabile: una breccia, un desiderio generalizzato di trovare una nuova prospettiva.
La chiave del film sta in una frase ripetuta candidamente da uno dei personaggi, quel “Io faccio Sanshiro Sugata, tu fai Higaki” e nella risata cristallina che ne segue. Si tratta di una dedica sentita ad Akira Kurosawa, in particolare al suo primo film (Sanshiro Sugata, del 1943), e che racconta proprio la storia di un duello tra due judoka e della perdita di valori che questo sport – che lo spirito della sportività stesso – sembrava avere subito agli occhi del grande regista giapponese. Negli scontri, duri ma corretti, che Throw Down mette in scena con ironia e leggerezza To riesce a catturare tutta la vitalità di un certo modo di fare cinema, di vivere, di immaginare. Una prospettiva che la ex colonia britannica, città di frontiera e poroso luogo di scambio e sperimentazione anche feroce, sembrava ancora eletta a rappresentare nel 2004 e che ancora oggi, nonostante la profonda crisi del cinema hongkongese e il trasferimento effettivo di molte delle produzioni e degli autori alla Cina continentale, non ha del tutto abbandonato.
Throw Down è puro piacere di raccontare, un gioco tecnico ed estetico che si risolve in una lunga, struggente danza marziale. Una danza che coinvolge corpi, generi cinematografici e sguardi diversi in una sintesi di rara bellezza, nella cornice inconfondibile del Porto Profumato. Simulacro più vero del vero, città-schermo e luogo di fantasmi che, in tutti questi anni post-handover, ha continuato a celebrare la propria memoria, tradurla in molteplici visioni del presente e aprire squarci verso il futuro.