Pusher - La trilogia
Un viaggio attraverso i tre capitoli della saga Pusher di Nicolas Winding Refn
Chi scrive ha scoperto il cinema di Nicolas Winding Refn in tempi relativamente recenti grazie al Torino Film Festival, dove fu proiettato il cult Bronson, e alla mostra del cinema di Venezia del 2009, dove fu presentato fuori concorso il suggestivo Valhalla Rising. Due opere, quelle appena citate, talmente originali e perturbanti da mettere in moto un’instancabile ricerca di tutta la filmografia del talentuoso regista danese procedendo a ritroso fino ad arrivare all’opera prima: Pusher, del 1996, film oscuro venerato da un sottobosco di estimatori nonché il più grande successo commerciale della storia del cinema danese. Tuttavia, durante la visione dei primi minuti di questo film tanto “chiacchierato” da una (allora) esigua nicchia di cinefili sentimmo subito crescere in noi un forte senso di delusione, quasi di tradimento. Che cosa avevano a che fare uno sporco ed esasperato iperrealismo estetico, una tendenza manierista ad emulare un certo cinema europeo dei primi anni ’90 (già derivativo di quello statunitense anni ’70) e uno stile così poco incisivo con la messa in scena raffinata e potente di Valhalla Rising o con il taglio espressionista delle inquadrature ed i colori anti-realistici di Bronson? Poi, superata la prima mezz’ora, scattò qualcosa.
Metabolizzate le asperità iniziali e i movimenti sconnessi della macchina a mano si comprende come l’estremo realismo della messa in scena di Refn non sia dettato da un’emulazione di certo cinémà vérité (o peggio del dogma di Von Trier) ne tanto meno da una povertà di mezzi o come mascheramento di un qualsiasi dilettantismo. Al contrario, a 25 anni il regista era già un enfant prodige mosso da un’urgenza espressiva e da una consapevolezza stilistica assai rara nella maggior parte dei giovani cineasti europei. Non a caso oggi, dopo aver visionato l’intera opera di Refn, possiamo affermare con sicurezza che nelle sequenze di Pusher non si faticano a ritrovare scampoli di quell’autorialità forte che troverà piena maturazione nelle opere più recenti. Pur essendo stato realizzato con generosi fondi danesi, Pusher si distingue innanzitutto per come fornisce un ritratto impietoso di una Copenaghen inedita, mostrata da Refn come tutt’altro che accomodante, sicura o economicamente stabile. La capitale messa in scena dal regista esordiente è, per l’appunto, una città indecifrabile, messa a nudo, evocata solo attraverso i suoi bassifondi e i suoi recessi più inesplorati. A questo proposito è curioso notare che su una parete della casa del protagonista vediamo campeggiare un enorme poster di Mad Max, manifesto del cinema post-apocalittico di cui sembra far parte anche la Copenhagen dipinta da Refn.
Nel contesto urbano appena descritto si muove Frank – primo nome introdotto da una presentazione didascalica dei cinque personaggi principali – uno spacciatore che dovrà fare i conti con le controindicazioni derivate dalla sua attività e dal suo stile di vita, entrambi costruiti sulla base di rapporti umani fittizi e su una fitta rete di clienti inaffidabili, amicizie sbagliate e colleghi pericolosi. Una volta fatta la conoscenza di Frank, lo sguardo dello spettatore diventerà un tutt’uno con quello del regista, seguendo passo dopo passo l’intero percorso del protagonista, fino ad instaurare un rapporto schermo-spettatore simile a quello che si viene a creare tra giocatore e main character in un videogame in terza persona. Conformemente a tale approccio – fortemente incentrato sulla costruzione dell’empatia tra il pubblico e personaggio principale – Copenhagen non assurge, come spesso si suol dire, a protagonista del film ma resta sfondo grigio e indistinto, un contenitore anonimo di vicende che potrebbero svolgersi in qualsiasi periferia ben rifornita di droga e relativi spacciatori/consumatori. Di conseguenza, notiamo come la macchina da presa non abbandoni mai i corpi dei personaggi – specialmente quello dello sfortunato Frank – pedinandoli da vicino con un stile grezzo ma efficace, collocabile tra l’incedere entomologico dei primi Dardenne e i più ispirati precetti zavattiniani.
Distante anni luce dal pulp più formalista di cui solo Tarantino può dirsi unico patrono, Pusher conserva però alcuni elementi tipici del crime movie urbano anni ’90, come la suddivisione in capitoli (la vicenda è scandita attraverso la successione dei giorni della settimana) ed una tendenza all’adesione di una certa narrazione modulare cinematografica: non a caso, pur presentando una sostanziale linearità cronologica del racconto, le sequenze di Pusher potrebbero essere montate in ordine diverso destrutturando l’unità narrativa senza però perdere praticamente nulla a livello emotivo. Questo perché il film di Refn si offre allo spettatore più come un’esperienza puramente percettiva piuttosto che intellettuale, caratteristica che verrà più volte ribaltata nel corso della filmografia del regista, il quale a volte realizzerà opere talvolta astratte, oniriche e “fuori controllo” ed altre fortemente fredde ed intellettualistiche. Il finale del primo capitolo della trilogia Pusher appartiene senz’altro alla prima delle due categorie appena descritte; l’uso espressionista dei colori, la musica ossessiva come mezzo per esprimere l’inesprimibile celato e represso intimamente dai protagonisti e la motilità dei corpi impazziti in preda alle passioni sono ciò che colpisce maggiormente dell’operazione, al di là di una sceneggiatura forse volutamente non originale, quasi un canovaccio, ideale per sperimentare ed affinare il mestiere.
Pusher II arriva nel 2004, all’indomani dell’insuccesso commerciale del pur interessante Fear X e, forse anche per questo motivo, sembra risentire della fase d’incertezza che il regista sta attraversando. Nella ricerca dell’equilibrio tra l’innovazione e la tradizione per il secondo capitolo della fortunata saga (che saga poi non è, visto che il personaggio principale cambia ogni volta) Refn accentua ogni aspetto che aveva caratterizzato il primo, acerbo, Pusher limando però, a fronte di un budget più cospicuo, la maggior parte di quelle asperità registiche che tanto avevano sorpreso il pubblico di allora. Ecco allora che Pusher II si presenta, se possibile, ancor più estremo del capostipite, coadiuvato però da aperture di inusuale lirismo che giungono a saturazione nel melodrammatico finale (sospeso come quelli di tutti i capitoli della saga). Notiamo, inoltre, l’emergenza di una più chiara cifra stilistica della serie e una visione d’insieme progettuale tradotta in una struttura a scatole cinesi dove i film, più che rincorrersi secondo una linearità cronologica, si intrecciano fra loro, inquadrando la realtà danese attraverso gli occhi di protagonisti differenti. Ecco dunque che Frank scompare dalla scena e il ruolo principale viene assunto da Tonny (il bravo Mads Mikkelsen, attore feticcio di Refn), delinquente goffo e spiantato, tossico e impotente, alle prese con un padre che lo disprezza e una serie di scelte difficili e di responsabilità enormi, ossessionato per giunta dalla nascita inaspettata (e indesiderata) di una figlia. Pur non rinunciando ad una messa in scena ancor più estetizzante e “ingombrante”, Refn riesce miracolosamente a costruire un anacronistico rapporto di intimità e complicità con i personaggi attraverso l’alternanza di sequenze in cui vediamo Tonny rubare auto e sniffare coca, ed altre in cui lo seguiamo mentre è intento a cambiare i pannolini alla piccola. Le tonalità del secondo film diventano quindi meno cupe in virtù di un’ironia grottesca miscelata alla violenza parossistica e all’orrore che popolano il microcosmo di Pusher. Tuttavia non bastano di certo una maggiore cura e ricercatezza nel taglio delle inquadrature o un gusto vagamente pop e pittorico nella scelta di fotografia e pro filmico per fare di Pusher II un film innocuo e costruito solo in funzione della forma. La compresenza ossimorica di crimine ed innocenza, infanzia e morte, sangue e candore non fa altro che sottolineare il costante paradosso che genera e regola la vita dei personaggi messi in scena da Refn: un’umanità bordeline che viaggia costantemente al limite dell’autodistruzione.
Con Pusher III, realizzato nel 2005 immediatamente dopo il secondo episodio, Refn raggiunge con tutta evidenza il punto di maturazione stilistica dell’intera trilogia; film con cui si conclude l’affresco del regista sul mondo della droga in Danimarca all’interno del quale l’autore è riuscito a far convergere al meglio le istanze e le antinomie dei capitoli precedenti. Stile visivo e modalità di messa in scena rimangono pertanto pressoché invariati rispetto a Pusher II salvo per un recupero di uno sguardo totalmente nichilista e meno bonario che aveva accompagnato il percorso di Tonny. Stavolta il protagonista è infatti il losco Milo, ovvero il fornitore serbo al quale Frank doveva restituire i soldi nel primo Pusher. Si tratta peraltro dell’unico personaggio ad apparire in tutti e tre i film, una sorta di viscido demiurgo che tiene le fila del mercato della droga a Copenaghen, anche se “ufficialmente” il suo lavoro è quello di gestore di una trattoria. Stavolta però ritroviamo un Milo diverso: partecipa ai gruppi d’ascolto contro la tossicodipendenza e vuole preparare la festa di compleanno alla figlia. Di tempo ne è passato dal primo Pusher e Refn è consapevole che un cambiamento è in atto, tanto da spingere il personaggio più crudele, forte e sicuro di sé della saga in un vortice di disperazione che riverbera la caducità del potere criminale e la natura tragica dell’intera trilogia, i cui protagonisti vengono sempre progressivamente stritolati dall’ambiente nel quale si muovono: non esiste pertanto una vera differenza di classe nel mondo di Pusher. Milo diventa quindi vittima di una nuova generazione di fornitori albanesi che intendono dominare il mercato della droga danese approfittando di un credito maturato nei suoi confronti per costringerlo nel ruolo del servitore durante la squallida vendita di una minorenne al mercato della prostituzione. La reazione del protagonista è tanto inaspettatamente umana quanto deflagrante, e affonda nel sangue in un finale più estremo dell’intera trilogia. Ancora una volta l’unico approdo possibile per questa umanità così fragile sembra dunque essere la totale violazione del corpo (contemporaneamente atto di auto-distruzione e rinascita), scelta che per certi versi sembra denunciare una parentela e, allo stesso tempo, rimarcare un’indipendenza rispetto a quel cinema – in particolar modo Statunitense – degli anni Settanta cui Refn è sempre più affine, come si è fatto cenno in testa a questo scritto. In questo senso Pusher III rappresenta l’ennesima riconferma di come la commistione tra una libertà espressiva e di una sensibilità squisitamente europee e di un’estetica cinematografica che guarda agli Stati Uniti possa essere la chiave di volta per realizzare le opere di maggior spessore artistico e valore teorico.