Esiste un mondo impossibile. Esistono delle coordinate spirituali nelle quali tutto ciò che noi chiamiamo “vita” è sottoposto ad un esame scrupoloso circa le sue leggi fondamentali, i suoi usi e costumi, le sue maniere di apparire, di dialogare, di guardarsi attorno, di comprendere, di amare e di vivere. Questo mondo impossibile è nostro tanto quanto quello che chiamiamo “possibile”. Questo anfratto spirituale altro non è che la nostra stessa vita vissuta diversamente, con un altro passo, con altre coordinate, con altri intenti. Vita indagata, dove diveniamo i principali protagonisti e spettatori di noi stessi. Esistenza allargata, espansa, vivisezionata. E algida, sismica, rarefatta, inabitabile eppure necessaria. Una porzione dell’esistente, di noi stessi, dimenticata dai più e per la quale un nuovo esame è necessario all’alba di questo nuovo millennio che pare avere tutte le credenziali per attuare una cesura netta con quanto è stato fatto e visto sino a ieri; dove quindi alcune ideologie, comprese quelle dell’ipercinesi e della morale, possono essere rielaborate producendosi in nuovo senso e in nuove forme. Tutto sta nel farsi trovare pronti, nell’aver già intrapreso un percorso conoscitivo del proprio io.
Anche se è difficile da afferrare – pur nella sua assoluta immobilità, e questo già la dice lunga – l’opera di Fabrizio Ferraro, Quattro notti di uno straniero, parla grossomodo di tutto ciò. Ci lasciamo dei margini di sana dubbiosità critica e intellettuale poiché il “tutto-e-niente” indagato da Ferraro si presta a interpretazioni di varia natura, tanto articolata e multiforme quanto l’essenza dei nostri spiriti. Questo ultimo lavoro rappresenta la conclusione di un dittico aperto con Penultimo paesaggio e inframezzato dall’ineffabile Ethos. Ferraro è artista sperimentatore, che oltre ad un’intenzione e riproposizione altra del mondo che ci circonda propone anche una rielaborazione dei linguaggi stessi del cinema da cui parte. La visione delle sue opere è e continua ad essere una sfida concettuale e intima, nella quale lo spettatore deve avere il coraggio di porsi come si conviene ad una palestra intellettuale, dove il gusto di piegare, spazzare e umiliare credenze critiche edificate in noi è parte integrante di un processo conoscitivo viscerale, dove l’unica certezza è che non ve ne è nessuna, per placide onde cinematografiche che riescono a lenire nostri timori – e amori – ma che mai ci culleranno, distruggendo con la loro salinità i ferri strutturali della nostra esistenza.
È un cinema politico quello di Ferraro. Ideologico ed estetico. È l’arte più fine a sé stessa – ed è qui inteso come un complimento, si badi bene – perché non vi sono altri fini che non riguardino noi stessi. Ricalcando le movenze di Penultimo paesaggio, Ferraro filma una Parigi uterina e arcigna, santa e puttana, dove due compagni di viaggio esplorano una città impossibile, non conciliante, dove nelle sue cavità urbanistiche e architettoniche presenta sia i nostri Eden che le nostre Abu Ghraib interiori. Una città liquida, una narrazione irrisolta, nella quale l’estetica è etica, dove i silenzi si fondono con i paesaggi, dove Dostoevskij siede a tavolino con George Trakl e Calvino, Renoir con Pasolini, i macchiaioli con i veristi, per uno spettro artistico onnicomprensivo che umilia e rinvigorisce lo spirito, l’intelletto, le forme e i contenuti. E i paesaggi, umani e non.