George Dryer è un ex calciatore, stella – al tempo – del Celtic e del Liverpool, beneficiario di tutti i privilegi di cui un giocatore professionista può vantare: denaro, fama, leggerezza. George ha ora un’età che non gli permette più di indossare maglietta e calzoncini, è tempo ormai di ricomporre i resti di una vita demolita dalla sregolatezza e da quegli stessi privilegi di cui si credeva di aver usufruito, finendo – al contrario – per divenirne vittima. Abbandona così il Canada delle scommesse imprenditoriali fallite e degli investimenti immobiliari sballati per cercare un posto che lo ricongiunga con gli affetti andati persi, con l’ex moglie Stacie ed il figlio Lewis, con quella vita sepolta sotto i colpi della notorietà. Dopo La ricerca della felicità e Sette anime, Gabriele Muccino firma la sua terza opera americana, seppur meno strettamente legata al sistema hollywoodiano – anche e soprattutto per via dell’assenza di Will Smith, lasciapassare del regista per gli Studios – e figlia di una co-produzione italo-americana tra la Nu Image e la Millenium Film in associazione con la Andrea Leone Films. Crediti su cui vale la pena soffermarsi non per futile tecnicismo ma indicativi per porre l’accento sulla natura di un film assai meno calato – rispetto alle due precedenti pellicole mucciniane d’oltreoceano – nel contesto industriale hollywoodiano.
Quello che so sull’amore è un lavoro che mostra crepe da (quasi) ogni punto di vista lo si guardi: la prima e più grave – perché molte altre potrebbero esser conseguenza di questa – va ricercata nella profonda mancanza di sintonia tra regista e produzione, un’empatia mai sbocciata che il regista, in questi giorni di promozione del film, non manca di additare come concausa del flop al botteghino statunitense. “Quello che so sull’amore doveva essere una commedia drammatica destinata a virare irrimediabilmente verso momenti di verità toccanti e commoventi. I problemi, però, non si sono manifestati nella lavorazione, ma sono nati in seno alla fase produttiva e distributiva, quando si è deciso di catalogare la pellicola proprio come commedia romantica”. Parole che mal celano una delusione che nasce da un prodotto che, dipenda dalla superficialità della sceneggiatura, da un atteggiamento dittatoriale della produzione o da una regia poco illuminata (noi propendiamo convintamente verso una fatale miscela di tutti gli elementi), non riesce davvero a convincere. Macchiette in veste e corpi di star che inseguono un ex campione di calcio dedito alla riconquista degli affetti perduti. Così, in pochissime battute, si può riassumere l’utilizzo che Muccino fa di un cast che va da Jessica Biel a Catherine Zeta-Jones, da Dennis Quaid a Uma Thurman e Gerard Butler; un utilizzo che sembra non essere mai consapevole del materiale umano a disposizione, riducendo il tutto ad una sfilata poco omogenea e smaccatamente superficiale. Quello che so sull’amore è dunque un’operazione ibrida, che naufraga stordita tra l’esigenza di essere inserita in un sistema come quello hollywoodiano – e quindi con necessità di codici ben definiti e riconducibili al genere in questione – e l’idea di partenza del regista che avrebbe voluto condurre l’opera verso altri lidi.
Una certa inclinazione al patetismo nel cinema di Muccino si è ormai abituati a tollerarla – o quanto meno a conviverci – e in questa direzione di muovono salienti passaggi dell’opera, nonostante ciò non si può non notare l’onesta di fondo che permea questo suo ultimo lavoro, che permette al regista romano di lasciare da parte la pretesa di fornire quelle panoramiche sociali pressapochiste che avevano caratterizzato i suoi lavori precedenti (L’ultimo bacio, La ricerca della felicità e Baciami ancora su tutti). Quello che so sull’amore è un’opera semplice, scarna nella sua banalità ma priva di finalità che fuoriescano dalle sue capacità. È ciò che mostra, una storia d’amore scontata quanto si vuole ma diretta, nella sua trasparenza risiede il pregio più evidente.
È questa allora la direzione che auguriamo a Muccino, un cinema che sappia essere più umile e meno pretenzioso, privo magari di quegli orpelli di chi vuol insegnare più che mostrare. Forse anche in un contesto a lui più consono, dal momento che la provincia americana dipinta – posticcia e stracolma di personaggi ingessati – avrà avuto sul pubblico americano lo stesso effetto che ha avuto su di noi la Roma di Woody Allen.