Frammenti di cinema e di storie, sulle strade e sotto il cielo della città simbolo del poliziesco per eccellenza: Los Angeles. Più che una metropoli, un luogo dell’immaginario; un inferno sulla terra in cui vivere e morire, e in cui il fascino della divisa, dai tempi di Rodney King in poi, non è più garanzia di integrità morale. L’opera seconda di Oren Moverman (dopo Oltre le regole – The Messenger, del 2009) è il poliziesco che non ti aspetti, quello che si insegue (invano, molto spesso) tra dozzine di visioni e ricerche. Ma quando arriva – eccolo qua! -colpisce a fondo e non se ne va più via: perché Rampart è un cinema che resta, qui ed ora. Come un altro, ennesimo traguardo sulla via di un Genere, oggi tra i più rappresentativi di un modo nuovo e inedito attraverso il quale guardare al Mondo e all’Uomo. Su quella stessa strada su cui hanno corso e lottato Martin Scorsese, William Friedkin, Michael Mann, solo per citarne alcuni; ma se guardiamo appena un poco indietro, almeno fino al seminale Miami Vice (2006, ma sembra, anzi è, ieri), allora sì che il quadro generale diventa improvvisamente chiarissimo: prima di Moverman, forse solamente James Gray con I padroni della notte era riuscito in un’impresa simile. Quella cioè di realizzare un noir di siffatte proporzioni mastodontiche, lavorando sulle fondamenta del classico per proiettare il proprio film perfettamente all’interno dei confini della contemporaneità. Quello che Scorsese non è riuscito a fare con The Departed, ad esempio; e quello che, al contrario, ha fatto invece Mann con Miami Vice, uno dei pochi film che appartengono già al futuro, per tutta una serie di motivi che andrebbero affrontati in separata sede (qualora ce ne fosse ancora bisogno). E proprio da questo film sembra ripartire Moverman, almeno in termini di tempistica pura e semplice: Rampart non vuole rivoluzionare i canoni del genere come Mann, perché gli è sufficiente affrontare gli elementi basilari con semplicità cristallina (come si evince benissimo dalla presenza di James Ellroy in fase di scrittura); se guarda alla lezione di Miami Vice, piuttosto, è in quella drammatica presa di coscienza che impedisce di venire a patti con l’incedere solenne del tempo e degli eventi. Trame e sottotrame si susseguono senza soluzione di continuità, lasciando dietro di sé un fatale senso di incompiutezza; perché tutto corre e si evolve talmente alla svelta che fermarsi è impossibile. Di più: fermarsi significherebbe perdere. E in quei pochi, brevissimi istanti in cui Rampart si permette una sosta, Moverman dimostra un’attenzione e una cura per i suoi personaggi che appartengono veramente ad un’altra epoca, a un altro cinema: in quelle lente zoomate sugli occhi di Robin Wright; in una immersione notturna in piscina, isolati dal mondo e da tutti; in una strada dei sobborghi di Los Angeles, prima dell’irruzione dei due rapinatori nella bisca clandestina.
È una discesa agli inferi come Paul Schrader le scriveva trent’anni fa, ma che affonda le mani nel presente, anche se la vicenda si svolge nel 1999. Il viaggio di Dave Brown (nome già contraddittorio di suo e che, forse, rimanda per contrasto a un altro grande sbirro del cinema americano, quello Stanley White/Mickey Rourke di L’anno del dragone) per le strade e i ghetti della Città degli Angeli è un percorso di autodistruzione all’interno di sé stessi innanzitutto. La storia di un uomo che tenta disperatamente di mantenere il controllo intorno alla propria vita e a quella degli altri, in una famiglia “allargata” che non gli riconosce più lo status di padre e di autorità. Rampart è appunto questo: la cronaca di un fallimento. Una grande storia americana su un mondo le cui regole non valgono più, in cui l’universo attorno a noi cambia così velocemente da non permettere più una messa a fuoco (il primissimo piano finale…) dell’Uomo all’interno del suo habitat. Un’ammissione di colpa e di resa, come dimostra la bellissima sequenza che precede i titoli di coda: un faccia a faccia muto e a distanza tra padre e figlia, tra chi sogna ancora un futuro e chi invece ha sbagliato a giocare ogni singola mossa della propria vita. Senza mai giudicare il suo protagonista, ma neanche assolverlo: Moverman disegna i tratti di un personaggio che non conosce pace, imprigionato dalle sue stesse manie e declinazioni violente, il cui percorso tutto in discesa non avviene nei luoghi del set e della città, ma dentro un animo tormentato da demoni interiori che inesorabilmente lo condanneranno alla sconfitta e alla solitudine. E lasciateci infine urlare a squarciagola tutta l’ammirazione possibile per un Woody Harrelson mai così gigante e poderoso, capace di un’interpretazione viva e sofferta che è dimostrazione, l’ennesima, di un talento attoriale fuori dal comune e meritevole di ben più ampia attenzione. E non è un caso che ad accompagnarlo in questo calvario vi sia uno stuolo di nomi e volti celebri, a volte presenti anche solamente per un’unica scena: perché alla fine all’Inferno si sta da soli, ma durante il viaggio di sola andata una spalla amica non la si nega a nessuno.