The Village
Ovvero come M. Night Shyamalan reinventa l’America all’indomani dell’undici settembre.
Se c’è stato un film, all’indomani dell’undici settembre, capace di raccontare un’America in ginocchio, intorbidita dalla paura e dal dolore, questo è sicuramente The Village, una delle opere più controverse e affascinanti di M. Night Shyamalan.
In un what if radicale, si chiede il regista, sarebbe possibile azzerare tutto, dimenticare ogni cosa e ricominciare da capo? Inscenare un movimento contro la Storia, contro il progresso, contro il presente stesso? Creare una menzogna per i propri figli e poterla poi abitare, imponendo a loro insaputa un altro tempo, un altro spazio, un’altra società?
Il cuore di The Village è il ritorno all’isola felice, all’identità nazionale, al ghetto dove l’altro si rivela entità perfettamente riconoscibile. Il bosco che circonda il villaggio è la zona di confine, la frontiera che è proibito varcare. Lì fuori, avvertono gli anziani, vivono coloro che non si possono nominare: figure mostruose, spaventosamente diverse, abitanti del bosco oscuro. Gli anziani sanno che solo attraverso la paura possono garantire la verità del sogno, che il terrore è garante necessario della leggenda, ma dimenticano che qualcosa potrà sempre riaprire gli occhi a quelli che non vedono: l’amore (e in questo il film è straordinariamente politico: l’amore come strumento per sconfiggere la paura e ribaltare il potere).
Shyamalan racconta un’America per americani, isolati dal mondo, tornati a quell’Ottocento felice simulato in un villaggio. I Padri fondatori, disgustati dagli orrori del mondo, mettono in scena un verosimile tutto cinematografico. Con minuzia di dettagli, creano un set ineccepibile, una serie di regole e di presupposti morali e poi, come ogni metteur en scène che si rispetti, si lanciano in una conquista impossibile: l’utopia dell’innocenza dove il colore proibito è quello del sangue e della mela avvelenata.
Proprio come in una fiaba, in cui Cappuccetto Rosso si fa Cappuccetto Giallo e il Lupo Cattivo diviene l’altro da sé, lo sconosciuto. Ogni mistero è presto svelato, ogni traccia mostruosa si rivela una falsa pista, ogni paura si fa inconsistente non appena affrontata. La forza del terrore – strumento necessario per assicurare la salvezza di una civiltà - viene completamente declassata da un mistero più grande, quello del più cieco, del più generoso, del più innocente degli amori. D’altronde, come in un romanzo russo, gli unici che possono vedere in un mondo di bendati sono la donna cieca e il matto del villaggio. Non perché vedano più degli altri, ma perché vedono attraverso gli altri. Sono attratti dal frutto proibito, si macchiano le mani con il suo colore e, come versioni deviate di novelli Adamo ed Eva, lasciano l’Eden alle loro spalle perché stregati dalla conoscenza. Guardano in faccia il segreto più recondito del Paradiso e scoprono che la mela è stata avvelenata dallo stesso Padre non per crudeltà ma per eccesso d’amore (ammesso che ci sia una differenza).
Sono, ancora una volta, il lupo e la bambina: non c’è nessun mostro se non il buon vicino, nessuno straniero se non lo sconosciuto che noi siamo.
The Village allora si fa grande perché scopre che il demone è la nostra stessa ombra, che ci segue e ci modella nella buona e nella cattiva sorte. Che il sogno di un’America diversa è fondato sulle stesse storiche bugie di sempre: non c’è identità se non nella menzogna. Eppure, a interrompere l’eterno circolo di inganni, sovviene l’amore puro di quella ragazza cieca capace di attraversare il bosco, sconfiggere la paura, scoprire la città pur di salvare l’uomo che ama.
Il mondo può rigenerarsi e salvarsi soltanto grazie a un atto di fede.
E, alla fine, come il cinema insegna fin dai tempi di Liberty Valance, si preferisce continuare a vivere nella leggenda piuttosto che riaprire gli occhi e veder crollare le proprie torri.