Lo spietato
Il film di Renato De Maria segue pedissequamente gli stilemi di certo cinema gangster, dimostrando comunque di saper giocare con intelligenza con la sua vena comedy.
Già dal milanese fittizio e caricaturale di Riccardo Scamarcio abbiamo una sintesi di quella che è in definitiva l’arma migliore al servizio de Lo spietato: il suo non prendersi (troppo) seriamente. Prodotto da Bibi Film e Rai Cinema e approdato il 19 aprile su Netflix, l’ultimo film di Renato De Maria (già autore del documentario Italian Gangsters) racconta scorsesianamente ascesa e caduta di Santo Russo (Scamarcio), immigrato calabrese nella Milano degli anni Sessanta che, a partire da una giovinezza travagliata, capisce subito come sfruttare il proprio talento criminale, arrivando nel giro di vent’anni a toccare i vertici della malavita milanese. Liberamente ispirato al romanzo Manager Calibro 9 di Pietro Colaprico e Luca Fazzo, al cui centro ci sono le testimonianze del pentito Saverio Morabito, Lo spietato guarda a una sensibilità transoceanica e all’epopea gangster come a una risorsa cinematografica cui attingere ma non certo da celebrare.
La scelta di cucire addosso al genere gangster una chiara veste comedy, soprattutto nella prima parte, gioca a favore di un film che non ha nessuna pretesa di rinnovare il genere e che anzi, al contrario, segue piuttosto pedissequamente un collaudato percorso di ascesa e caduta criminale. La demenzialità di certi momenti - una chicca la sequenza del matrimonio di Santo, turbato ma non troppo dall’arrivo dei carabinieri con tanto di foto di gruppo annessa - è altra cosa rispetto alla necessità di creare attimi di distensione per irrobustire la carica empatica dello spettatore; piuttosto finisce qui con l’essere il tono generale di una rappresentazione in cui l’assurdo sconfina nel patetico. Questo grazie soprattutto a un ottimo Scamarcio, convincente nel ruolo del parvenu cafone e inconsapevole (utilizza l’espressione «ça va sans dire» senza conoscerne il significato, emula con ostentazione un dialetto non suo) arricchitosi in un’Italia spregiudicata di disastrosi e inaccessibili modelli identitari, di cui finisce col diventare un riflesso.
Una parabola negativa di larga fruibilità che per fortuna rinuncia in modo intelligente a sentimentalismi ricattatori e potenzialmente ambigui, a partire dall’assenza di una storia d’amore, a fronte al contrario di un lavoro sui due personaggi femminili determinante per la riflessione del film. Da una parte Mariangela (Sara Serraiocco), mogliettina casa e chiesa di Santo calata nella Milano arrampicatrice direttamente dalla Calabria degli anni Cinquanta, dall’altra Annabelle (Marie-Ange Casta), artista francese che frequenta i salotti della Milano radical chic. Nessuna delle due si salva da uno sguardo impietoso. La seconda finisce con l’infatuarsi del volgare protagonista, nel momento stesso in cui questo rivela la propria animalità violenta, salvo scappare a gambe levate dopo un colloquio chiarificatore con Mariangela. Quest’ultima è la vera svolta del film. La sua trasformazione, nel finale, da femmineo retaggio di un Sud secolare, alla cinica moglie del boss in tacchi a spillo completa il quadro di un Paese in mutamento e dei desideri di una fetta dell’Italia pre-berlusconiana.
A non funzionare sono invece alcuni snodi narrativi, troppo sfilacciata la seconda parte, in cui tra l’altro il ritmo cala in più punti all’interno di un prodotto che già di per sé non mira all’originalità. L’ellissi che va dall’arresto di Russo alle sue speculazioni in campo edilizio, anni dopo il carcere, è un’occasione mancata per riflettere su una svolta cruciale nel campo della malavita e della nostra Storia recente. Film soprattutto di maschere e di personaggi, con qualche punta di gustoso estro comico, Lo spietato è niente più che un’esperienza godibile, che se non altro ha il pregio di non scadere nell’eccessivo autocompiacimento di tanto cinema crime.