The Last Duel
L’immagine mente e le fondamenta di un genere vanno in mille pezzi, ma Ridley Scott non cede di un passo. "The Last Duel" è una profonda dichiarazione vitalistica che si muove tra i formati e i codici mediali per riflettere su quanto il rinnovamento del cinema passi attraverso i suoi spazi di confine.
The Last Duel offre la possibilità di riflettere sulla strana cartografia disegnata negli anni dal cinema di Ridley Scott. Quello del regista inglese è infatti un approccio ondivago, felicemente contraddittorio al medium, fedele, ad esempio, ai modelli classici del Kolossal proprio quando stava nascendo l’esorbitante blockbuster massimalista degli anni ’00, e pronto, in tempi recenti, a esplorare il potenziale multimediale delle saghe di Alien e Blade Runner. E allora, da un certo punto di vista, Scott non ha solo intuito l’elemento trasformativo del cinema ma soprattutto non ne ha avuto paura, esplorandone costantemente le sfumature, quasi a voler rimarcare quanto lo spirito di quella New Hollywood che l’ha formato sia legato soprattutto al desiderio di spingere il medium oltre i suoi stessi limiti, senza preoccuparsi delle conseguenze.
The Last Duel è prodotto emblematico in questo senso. Il film ha infatti in sé tanto il germe della tradizione, che lo lega all’immaginario del genere storico ormai trademark di Scott ma anche, semanticamente, ai Duellanti del suo esordio, quanto la spinta alla sovversione di una norma, implicita conferma di quanto il cinema, per il regista, sia sempre più fuori dal cinema, in parte nel teatro, nella letteratura e, soprattutto, nello spazio espanso della televisione.
Ma non si tratta di una rivelazione. Da almeno dieci anni Scott esplora i punti di contatto tra cinema e tv: suo è quell’esperimento di blockbuster d’autore serializzato che fa capo alla dilogia Prometheus/Alien: Covenant, curato non a caso insieme al Damon Lindelof di Lost e The Leftovers; suo è quel The Martian scritto da Drew Goddard, storico collaboratore di JJ Abrams e Joss Whedon. The Last Duel è forse il tassello finale di questo percorso, il più radicale e concettualmente ambizioso. Quello di Scott è in effetti un film puntellato da elementi presi dallo spazio della serialità. Si è già scritto di Nicole Holofcener, sceneggiatrice e regista televisiva che firma lo script insieme a Ben Affleck e Matt Damon, si è già applaudito alla splendida performance di Jodie Cormer, che viene dal piccolo cult seriale Killing Eve, si è già annotato quanto il feeling del film ricordi quello di un The Affair ripensato per una cornice medievale; ma ben più interessante, forse, è sottolineare quanto i 135 minuti della pellicola siano divisi quasi alla perfezione in tre atti da cinquanta minuti circa, la stessa durata di un episodio televisivo medio.
Ma più che uno spazio laboratoriale, in cui poter sperimentare con i linguaggi, l’impalpabile spazio seriale diventa per Ridley Scott una sorta di punto di fuga, un luogo sicuro in cui rifugiarsi per lavorare a una sorta di via mediana al racconto, a cavallo tra cinema e serialità. Si tratta, indubbiamente, di una scelta obbligata. Perché nell’irreversibile ritorno ab ovo del suo cinema che è The Last Duel, il regista inglese non può che riconoscere la messa in scacco di certe sue strutture cardine.
Attraverso lo sguardo di Affleck, Damon e Holofcener, il racconto del duello tra Jean de Carrogues e il libertino Jacques Le Gris, indetto per difendere l’onore di Marguerite, moglie di Jean stuprata da Le Gris, riattraversato, ri-raccontato dalla diegesi, che ricostruisce il fatto attraverso i punti di vista dei tre protagonisti, diventa una sorta di controstoria femminista del romanzo cortese, che riscrive in chiave inquieta e ambigua i suoi riferimenti principali. C’è lo sguardo stilnovista, c’è il libro che si carica di attrazione, di desiderio, ma tutto si gioca, non a caso, sul gesto “proibito” del bacio, costantemente riproposto dalla narrazione. Ne viene fuori un racconto costellato da exploit machisti e maschilisti, che si spinge fino a esiti tanto coraggiosi quanto radicali che fanno emergere, ad esempio, la dimensione da self made woman della donna.
Le argomentazioni sono indubbiamente a grana grossa ma hanno il pregio di inseguire alcune felici intuizioni che rimarcano il passo contemporaneo del racconto, tra riletture critiche della mascolinità e tendenza all’autofiction della narrazione, che porta i protagonisti mentire e costruire testimonianze di comodo per inseguire il mito di quei cavalieri cortesi che non potranno mai essere. E il genere manca, cede, di fronte a questa rappresentazione. L’immagine mente senza tregua e Scott si ritrova a lavorare a contatto con un panorama di rovine. Non si tira indietro, però e sceglie coraggiosamente di organizzare un progetto che lavora a partire proprio da questo trauma sintattico. The Last Duel inizia non a caso con un’iper-classica vestizione delle tre parti in gioco, Marguerite e i due cavalieri pronti a combattere, e procede con la carica dei due protagonisti. È l’ultimo detrito di un cinema che è stato, e che resta in piedi fino al momento in cui le armi si toccheranno, prima del titolo; dopo di ciò inizia la vera immersione nello spazio finzionale del racconto, dominato da macerie.
Lo sguardo di Scott attraverserà questo spazio residuale senza cedere di un passo, organizzando battaglie campali quasi sempre tenute fuori scena, interrotte in apocope e riprese in piani strettissimi, preferendo rinchiudersi negli ampi ambienti cortigiani, per concentrarsi sui corpi, sui dialoghi, sui gesti, su uno spazio teatralizzato e orchestrando una sorta di sghembo trattato sul desiderio, pronto a mostrare le ambiguità dell’attrazione. Di questo passo il genere riparte da un nuovo reset (l’ennesimo, dopo quelli narrativi insiti nella reiterazione del racconto), che costringe l’epica nel rettangolo del torneo cavalleresco, riproposizione in scala e dunque parentesi misurabile, controllabile, della violenza del campo di battaglia.
Più che il prototipo del film storico in epoca #metoo (anche così è stato definito), The Last Duel è una dichiarazione profondamente vitalistica da parte di Ridley Scott, che in un momento di costanti affermazioni territoriali, di distinguo partigiani tra ciò che è cinema e ciò che cinema non è, sceglie di fare un passo indietro, di testare di persona il suo rapporto con l’immagine e di cercare una nuova via espressiva che, sotterraneamente, fa della comunicazione fluida tra media differenti la sua chiave principale. Tutto pur di rinnovarsi, tutto pur di non sparire insieme al proprio immaginario.