Speciale The Witch - Itinerarium mentis in diabolum
Il contributo che qui presentiamo è parte di un saggio sulla suspense uscito per Orthotes: "Suspense! Il cinema della possibilità"
Il cinema horror fa sempre più fatica a raccontare la sfera del numen e del sacro, quella dimensione separata che rimanda a qualcosa di radicalmente eccedente l’ordinarietà, l’ineffabile che si sottrae alla concettualizzazione, ciò che, in altri termini, insieme al mostruoso, dovrebbe rappresentare il vero e proprio ubi consistam del genere. Nonostante il titolo convenzionale e didascalico, che farebbe pensare all’ennesima variazione narrativa su una storia di streghe, The Witch percorre una strada decisamente poco battuta dall’horror contemporaneo, sempre più orientato su immagini/attrazione e su codici e stilemi mediatici più à la page come il found footage e il mockumentary, il gore e lo slasher.
Il debuttante Robert Eggers ambienta il suo folktale nel New England puritano del diciassettesimo secolo (qualche anno prima dei celebri processi di Salem) partendo da dei testi dell’epoca, con dialoghi ricavati da diari privati, tanto che l’aspetto che colpisce subito del film di Eggers (che non a caso è uno scenografo di formazione) è proprio l’attenzione certosina e filologica ai dettagli di messa in scena e alla ricostruzione storica (sottolineata dalla fotografia a luce naturale di Jarin Blaschke), con tutto il repertorio liturgico/dottrinario delle nuove chiese riformate, fatto di predestinazione fatalistica e di pessimismo antropologico, che in The Witch trova una delle sue più chirurgiche e spietate rappresentazioni. Forse soltanto il finlandese Sauna (2008), non a caso anch’esso ambientato negli anni immediatamente successivi alla diffusione della Riforma, aveva provato con altrettanto rigore a far scaturire l’orrorifico direttamente dal cuore di tenebra della Storia.
L’incipit chiarisce subito la direzione narrativa del film: un processo pubblico sancisce l’espulsione di William e della sua famiglia (per motivi che supponiamo di carattere religioso ma che non vengono chiaramente indicati) dalla comunità in cui la famiglia viveva e dove il pater familias lavorava a una piantagione. Dopo che le porte del villaggio si sono richiuse alle sue spalle, l’uomo costruisce una piccola fattoria al limitare di un bosco; con la collaborazione della moglie e dei figli, inizia, con scarsa fortuna, la coltivazione del mais e l’allevamento di qualche animale (tra cui un inquietante caprone nero, Black Phillip, con il quale i due piccoli gemelli della coppia sembrano riuscire a comunicare). Va da sé che qualcosa di insondabile e mostruoso incombe sugli isolati coloni, con le inquadrature del limitare del bosco che si fanno via via più frequenti (e che fungono da veri e propri memento mori), suggerendoci che la foresta (e ciò che in essa si nasconde) si farà sempre più minacciosa nel corso del film.
Il conflitto narrativo principale si innesca con la misteriosa sparizione del quinto figlio, il neonato Samuel, che scompare improvvisamente mentre sta giocando con la sorella più grande, Thomasin, interpretata dalla splendida Anya Taylor-Joy che, con i suoi occhi limpidi e il volto ceruleo e angelicato, ci viene presentata sin da subito come il personaggio più empatico, quello che sarà chiamato a farsi carico, come la Ivy di The Village, del tentativo di riportare il mondo narrativo alla pacificazione perduta. L’incubo paranoico, imbevuto di superstizione religiosa, travolge William e la sua famiglia trasportandoli in un vero e proprio itinerarium mentis in diabolum: la colpa della scomparsa di Sam viene fatta ricadere dalla severa e algida madre e dagli inquietanti gemelli, coadiuvati dal caprone Black Phillip, proprio su Thomasin che, nel pieno della sua esuberante e inquieta giovinezza, sembra lo strumento ideale per incarnare e perpetrare i diabolici piani del Maligno.
A partire dalla scomparsa del neonato gli eventi precipitano rapidamente: gli animali di cui William va a caccia sembrano impossessati da un’entità misteriosa, Caleb, il fratello prediletto di Thomasin, viene catturato da una strega che abita nel cuore del bosco e ritorna a casa nudo e in preda a un raptus demoniaco, dalle mammelle di una capretta esce sangue invece di latte. L’unica spiegazione che i due genitori riescono a dare a questi oscuri eventi è che la figlia più grande abbia ceduto l’anima al diavolo e stia sacrificando i suoi fratelli alle forze della magia nera. La domanda narrativa – e le conseguenti strategie di suspense messe in atto per sostenerla – viene a questo punto ricalibrata e sembrerebbe recitare: ma quello a cui stiamo assistendo è un delirio onirico e paranoico o il demonio si sta realmente impossessando di Thomasin e della sua famiglia?
La domanda rimane sostanzialmente inevasa (quasi) fino alla fine. Del resto, la suspense messa in atto in The Witch non si configura seguendo lo schema binario teorizzato da Noël Carroll (paradigma che funziona egregiamente sul thriller e sui generi della detection ma che risulta molto più problematico se applicato all’horror) – che prevede una responsabilizzazione morale dello spettatore, attraverso un outcome di segno negativo, che appare molto probabile, e uno di segno morale positivo, che risulta assolutamente improbabile e che invece sarà proprio quello che si realizzerà – ma è sospensione perpetua, una suspense che non prevede strategie di chiusura e che lo spettatore non può che subire passivamente in una progressiva e inarrestabile discesa agli inferi.
Nonostante la lontananza dai codici più invalsi dell’horror contemporaneo, sarebbe tuttavia erroneo sostenere che in The Witch non sia presente un portato narrativo che predetermina e veicola l’orizzonte di aspettative dello spettatore: Eggers dialoga con una costellazione filmica piuttosto riconoscibile che, a partire dai temi dell’ossessione della fede e del vivere comunitario, chiama in causa, a diverso titolo, Dreyer, Bergman e Bresson, l’Haneke de Il nastro bianco e, soprattutto, lo Shyamalan di The Village, con il quale The Witch condivide una diagnosi iniziale molto simile (l’ambientazione storica, il fanatismo religioso, le creature malvagie che abitano il bosco e che non devono essere disturbate), ma che poi scioglie una prognosi di segno completamente diverso rispetto al film di Shyamalan, una prognosi infausta per la quale non c’è cura possibile.
Laddove, infatti, il bosco di The Village si configura innanzitutto come una possibile via di uscita dalla caverna/villaggio platonica fatta di inganni e simulacri, situazione che è perfettamente esemplificata dagli anziani che manovrano e/o impersonificano le supposte creature sanguinarie che sembrano tenere in scacco il paese, in The Witch, al di là del bosco non è data alcuna ulteriorità, nessuna via d’uscita possibile, ma solo la parte oscura, l’indifferenziato diabolico di un sabba stregonesco.
E ancora, mentre la protagonista non vedente di The Village è l’unica a ricevere la rivelazione negata agli altri uomini (perché è l’unica, proprio in quanto cieca, in grado di vedere ciò che veramente è, che, platonicamente, è al di là dei sensi e invisibile alla semplice vista corporea), rivelazione che le consente di scoperchiare il sistema di messa in scena ordito dal consiglio degli anziani e di trovare la forza per uscire dalla realtà apparente per fare esperienza di quella autentica e intelligibile, in The Witch, oltre il bosco, non c’è alcuna salvezza proprio perché non c’è nessuna dimensione di intelligibilità, ma il puro indeterminato, l’ominoso che parla il linguaggio indifferenziato della violenza primordiale che si impossessa di tutto e di tutti: il tentativo di redenzione e pacificazione di Thomasin, a differenza di quello dell’eroina shyamalaniana, è inevitabilmente destinato allo scacco.
Thomasin, in quanto sguardo vicario dello spettatore, diviene vittima sacrificale, perché per rinsaldare i vincoli con la comunità e ritornare all’armonia originaria, è necessario venire a patti con la violenza. Come ci ricorda René Girard, se è criminale uccidere la vittima perché sacra, essa non sarebbe tale se non la si sacrificasse. Nell’horror la morte della vittima – il sacrificio del capro espiatorio (pharmakos) – è condizione essenziale per il rinsaldamento e l’unificazione del mondo narrativo. Questa dimensione antropologica-rituale trova piena rappresentazione nella struttura sacrificale di The Witch, un percorso scandito per tappe, una via crucis capovolta che è insieme un itinerium mentis in diabolum, in cui l’eroina diventa vittima da immolare, figura cristologica, ancorché rigorosamente senza redenzione.
E poco importa se il suo sacrificio risulterà del tutto inutile visto che nessuna ricomposizione è più possibile. Per Thomasin, ormai diventata dia-bolica, e quindi, conformemente all’etimo, abitante una zona separata tra la comunità e il bosco, tra l’umano e il ferino, scomparsa la famiglia, non resta che il sabba satanico. La conversazione/cerimonia finale tra Thomasin e Black Phillip (che, in fondo, è il perfetto equivalente demoniaco del Balthasar bressoniano), segna la soglia di passaggio fra l’umano e il soprannaturale, tra ciò che ci è massimamente vicino (i genitori, i fratelli, la comunità) e ciò che è abissalmente distante, come appunto il numen, la sfera del sacro e dell’ineffabile. Questo eccesso di ambiguità è esattamente ciò che caratterizza l’incontro con uno sguardo/animale completamente de-soggettivato come quello della lepre nel bosco o del capro Black Phillip, uno sguardo che ingloba immediatamente quello di chi guarda senza appartenere a nessuno, tanto da rendere il familiare (heimlich), ciò che ritenevamo nostro e comprensibile, qualcosa di improvvisamente pericoloso e insostenibile (Unheimliche).