Speciale The Witch - La stagione della strega
Le millenarie questioni irrisolte della fede, avvolte dall’ingombrante silenzio di Dio: la superstizione del divino in immagini e parole da un altro tempo
La storia dell’uomo è anche la storia dei suoi dei, della sua ricerca perenne, al di là della soglia del visibile, di un varco che metta in comunicazione il fragile mondo della vita, della carne e dei suoi desideri, aberrazioni, dolori, ma anche l’intelletto inappagato alla ricerca di un senso ultimo e di una risposta ai misteri del cosmo, con la dimensione intoccabile e incontaminata, pura e incorruttibile dell’eternità, della perfezione assente sulla terra, dell’infinito sapere escluso ai mortali. Una volta individuato il divino come quella sfera dell’essere – certo assai distante da quella umana e incommensurabile rispetto ad essa – governata da un’unica Entità, da un’unica Intelligenza, inevitabilmente comincia a prendere forma, parallela ed opposta ad essa, anche la sfera del demoniaco, dell’assoluta opposizione a tutto ciò che Dio rappresenta. Nel monoteismo cristiano, nato dall’influenza dell’oriente ebraico (ebraismo) e di quello iranico (zoroastrismo/mazdeismo), la contrapposizione fra Bene e Male si configura come dualismo irriducibile, perenne lotta fra Luce e Buio, fra mondo celeste e infero, fra Ordine e Caos. La missione soteriologica del Cristo sottende, nei suoi molti aspetti, anche la necessità di sconfiggere il Male (Cristo possiede, fra i molteplici attributi/appellativi, anche quello di Grande Esorcista), di ripristinare l’ordine terreno in nome di quello celeste, grazie al suo essere Parola di Dio incarnata (il Logos originario, che, secondo il Vangelo di Giovanni, era “presso Dio”, era Dio stesso), portatore di rinnovata armonia e messaggero dell’amore dell’Altissimo verso i propri figli. Si noti peraltro come, all’interno dei testi canonici dell’Antico Testamento, i riferimenti a Satana (da “sâtan”, parola di estesa genesi etimologica, che indica “l’avversario”, “colui che si oppone”, “l’aggressore”), come entità distinta e in conflitto con Dio, siano esigui; paradossalmente, è solo con l’avvento del Grande Esorcista e successivamente alla sua venuta, cioè con la nascita e la diffusione del cristianesimo, che la demonologia, unitamente a una progressiva sistemazione teorica dei concetti cardine che la sostanziano, conosce uno sviluppo continuo almeno fino al XVII secolo. In breve, sembra che le epifanie del Maligno si moltiplichino, assieme alle sue schiere, dopo la comparsa del Cristo.
Se ci si astrae dal contesto storico e dalle evoluzioni specifiche della dottrina cristiana, pur nella loro ampiezza spazio-temporale e nella loro diffusione, si può giungere a un’ipotesi di ordine generale, in grado, forse, di chiarire il paradosso: quando un potere qualsiasi è nella fase di espansione e consolidamento, e quando attraversa poi eventuali momenti di crisi, per rafforzarsi necessita innanzitutto di una legittimazione, che primariamente deriva dalla presenza – effettiva o presunta, poco importa – di avversari irriducibili, identificabili nel nome anche se non necessariamente nell’effettiva presenza, agguerriti, incombenti e, si badi, non di rado organicamente inseriti nella comunità di riferimento. Che altro è il Demonio, se non colui che ambisce a colonizzare le società umane dall’interno, impadronendosi innanzitutto dei corpi degli uomini per poter poi ghermire le loro anime e così divenire signore del mondo? Che altro sono streghe, maghi, fattucchiere, negromanti, se non agenti del Maligno, il cui scopo è quello di avvelenare il tessuto sano delle comunità umane per preparare l’avvento del loro oscuro signore? Se il Medioevo è l’epoca in cui la demonologia trova il proprio graduale assestamento teorico, mentre l’attività di mantenimento del potere ecclesiastico si manifesta principalmente come repressione dei movimenti ereticali, l’Umanesimo, il Rinascimento e l’inizio della modernità costituiscono soprattutto il periodo più sanguinoso di resistenza al nuovo che avanza, sia all’interno dell’Ecclesia dei fedeli, con l’avvento della Riforma Protestante, sia all’esterno, con lo svilupparsi del pensiero scientifico, del razionalismo e, più in generale, con l’inizio dell’emancipazione umana dai lacci dei dogmi teologici e dai cascami della superstizione. Il principio dell’era moderna è scandito dalle guerre di religione, dalle abiure forzate, dai processi sommari e cervellotici per stregoneria, e poi dai roghi (o da altre, più o meno fantasiose, forme di esecuzione dei rei). Tutte le entità individuali e collettive riconosciute come difformi rispetto all’ortodossia – qualsiasi essa sia e qualunque sia il punto di vista attraverso cui risulti definita – vengono passate al setaccio e non di rado sterminate. I cattolici trucidano i protestanti, questi ultimi a loro volta massacrano i primi, ed entrambi gli schieramenti rivolgono poi le loro attenzioni al proprio interno, per scovare nuovi nemici della “retta fede” – in qualsiasi modo essa si configuri – da abbattere. Ora, se Dio corrisponde effettivamente alle caratteristiche che, nel corso dei secoli, filosofi e teologi gli hanno attribuito (onnipotenza, onniscienza, giustizia, infinita bontà e misericordia, somma guida della comunità dei credenti) come può Egli consentire che gli uomini si massacrino in suo nome? Come possono pensare, a loro volta, gli uomini di avere il favore divino nel combattere altri uomini che credono nel medesimo Dio? E infine, da ultimo ma tutt’altro che secondariamente, come può Dio consentire al nemico suo più grande e ai suoi immondi servi di colonizzare la terra, di diffondere i loro miasmi, di propagare i loro sortilegi, di affliggere l’umanità con la loro diabolica azione? In definitiva, come può Dio consentire al Male di dilagare in tutte le sue molteplici e contraddittorie forme, anche allignando negli errori di un’umanità troppo spesso abbandonata a se stessa senza la Sua divina guida?
The Witch (o The VVitch?), magnifico esordio del giovane cineasta americano Robert Eggers, prende le mosse innanzitutto da queste domande irrisolte, focalizzando l’attenzione su un periodo storico cruciale, in quanto affacciato sulla modernità, eppure tutt’altro che staccato dai residui di un’epoca ancorata pervicacemente a una concezione religiosa della vita ormai sorpassata e arcaica. Una concezione religiosa che, oltretutto, visto il contesto ambientale esaminato nel film, quello dell’emigrazione anglofona calvinista – i Puritani – verso il Nuovo Mondo, risulta marcatamente inflessibile, rigida e segnata sotterraneamente dal peso teorico della predestinazione, un’arma che toglieva peso alle gerarchie ecclesiastiche tradizionali nel loro essere tramite fra gli uomini e la grazia divina, ma che, per ciò stesso, finiva col rendere insensata anche l’azione umana in generale. Infatti, questa concezione non pone più il problema dell’agire conformemente alla legge divina per meritare la grazia, perché l’Altissimo ha già deciso – ha pre-giudicato, insomma – quali, fra gli uomini, saranno salvati: a causa del peccato originale, tutti gli uomini sarebbero meritevoli della dannazione eterna, se non fosse per l’infinita misericordia di Dio, che concede ad alcuni eletti la certezza di essere mondati dal peccato; le azioni probe, il retto agire costituiscono quindi la conseguenza, non la causa (o una delle cause) della salvezza. In conflitto con questo fosco orizzonte teorico ed esistenziale, TW pone la dimensione della natura, della Wilderness, incarnata dalla selva che fa da cupo spauracchio per la famiglia protagonista della vicenda – una volta allontanata dalla comunità di provenienza – e dalle sue sacerdotesse, le streghe.
La strega si erge come simbolo, secondo lo spirito cristiano più deteriore, dei peggiori attributi di una natura, quella femminile, già di per se stessa foriera di sciagure, seminatrice di discordia, portatrice di caos, veicolo di corruzione per il mondo umano, retto quasi esclusivamente da figure maschili, a loro volta divise fra la propensione al mondo spirituale, al trascendimento della mondanità, al ricongiungimento con il divino, e l’attrazione per la carne rappresentata appunto dalla donna, con tutto il corollario di desideri repressi e pulsioni animali (quindi dis-umane, secondo la discutibile concezione che oppone recisamente il corpo allo spirito). La strega, insomma, rappresenterebbe quanto di più pericoloso vi possa essere per una società fortemente maschilista, intrisa di religiosità malsana e pesantemente regolatrice: anima libera, indipendente, portatrice di un sapere legato alla natura e ai suoi segreti, sessualmente non soggetta ad alcuna restrizione; in breve, donna emancipata e non assoggettata. Se la Vergine Madre rappresenta l’archetipo femminile cristiano, essendo colei che concepì senza copulare, cioè senza peccato, la strega rappresenta la libertà di copulare senza concepire, di godere liberamente del proprio corpo senza vincoli umani o ultraterreni.
Eggers lascia, con intelligenza, nel dubbio lo spettatore circa l’attribuzione del titolo del suo film a due personaggi centrali: chi incarna effettivamente lo spirito autentico di ribellione femminile, insito nell’appellativo di “strega”? Si tratta della vecchia megera custode del bosco, che tormenta la famiglia protagonista, o si tratta invece di Thomasin (Anya Taylor-Joy), cioè di colei che, segretamente e forse inconsapevolmente, coltiva la propensione all’indipendenza, alla libertà, alla ribellione? È anche possibile che si tratti di due modi diversi di rappresentare una femminilità allora emarginata ed esecrata: nel primo caso, attraverso il ricorso a un’iconografia e ad un immaginario di impianto tradizionale (l’antro sanguigno in cui dimora la vecchia maga, la sua capacità di trasformazione e di suggestione, il rapimento del piccolo Samuel), anche se Eggers non calca la mano e dissemina di dubbi e ambiguità la parte di racconto dedicata al sovrannaturale; nel secondo, attraverso un ritratto psicologico assai intenso di una adolescente che si approssima a diventare adulta e che, semplicemente, vive i turbamenti e le inquietudini di un’età di cambiamento e contraddizione, di amore e odio per la propria famiglia, di ricerca di risposte in una religiosità incapace di darne (solo l’uomo presuntuoso che pretende di essere umile e pio può sentirsi predestinato alla grazia e trovare certezze: contraddizioni del calvinismo) e in un Dio silente. Forse, allora, è proprio Thomasin la witch di Eggers, cioè la rappresentante di una femminilità piena, complessa e moderna, fragile ma decisa, rispettosa dei ruoli familiari ma non di un’autorità ingiustificata e ottusa, impaurita dalle circostanze anche se attratta dal fascino dell’ignoto e dalla seduzione della libertà, una libertà innanzitutto di scelta, quindi laica, che si contrappone al rigido determinismo calvinista, secondo il quale, solo Dio sarebbe autenticamente libero.
Eggers peraltro orchestra una partitura capace di sondare e far esprimere pienamente tutti i personaggi principali, oltre che di seguire i molteplici tracciati di una mappa narrativa complessa e stratificata, nella quale convergono il ritratto fedele e tagliente di quella che fu, per così dire, l’epoca più antica (o antiquata) della modernità, le inquietudini della persona civilizzata al cospetto di un mondo selvaggio e impossibile da soggiogare totalmente, le fobie dell’uomo timorato di Dio e incapace di muovere un passo senza il Suo supremo consenso. Se il percorso di Thomasin – a livello esistenziale, oltre che nell’evoluzione del racconto – si configura come una parabola ascendente verso la libertà, quello della sua famiglia è inverso, una irreversibile parabola discendente verso la distruzione. A partire dalla condanna all’esilio impartita dalle autorità del villaggio di residenza al capofamiglia William (Ralph Ineson) e ai suoi congiunti, la micro-comunità bandita dalla società di riferimento dovrà trovare rifugio e sostentamento nelle Terre Selvagge. La sconfitta della famiglia di William si configurerà come duplice al cospetto della Wilderness: sarà di ordine materiale, visto che i mezzi di sopravvivenza risulteranno difficili da ottenere e da conservare, sia per le difficoltà ambientali sia per l’ingerenza delle entità che vivono nella selva (la loro appartenenza al reame degli inferi e la loro sottomissione a Satana è un’implicazione di carattere culturale, di livello connotativo anziché meramente denotativo, che riguarda i personaggi e probabilmente gli spettatori di formazione cristiana, non le immagini); sarà però una sconfitta soprattutto di ordine spirituale, in quanto quel Dio che si esprime tramite la comunità sociale, che è anche e soprattutto comunità di credenti, lontano da questa tace, o forse il suo potere non è in grado di estendersi a un dominio che appartiene ad altre forze, ad altri saperi. Inoltre, sarà anche la disfatta dell’uomo bianco colonizzatore al cospetto di un ambiente indomabile, di cui non riesce a rintracciare le coordinate, a decifrare i segni, a cogliere la più profonda essenza.
Eggers, anziché fare proclami o innalzare barriere ideologiche, gioca con l’ellissi, con il fuori campo, col predominare delle zone d’ombra del narrato e dell’immagine per evidenziare quanto facilmente possa dissolversi una (micro)società caparbiamente arroccata su regole e precetti fuori tempo, e soprattutto fuori luogo, al cospetto del silenzio di Dio e del ruggito della Natura. Anche perché, come disse qualcuno, è probabile che “Se Dio è la risposta, è la domanda ad essere sbagliata”.