Rock the Kasbah
Ancora una volta Bill Murray pesce fuor d'acqua, per un film che ammicca debolmente alla satira bellica per tingersi di favola, in modo però semplicistico e terribilmente banale.
Malinconico e solitario, ma sornione come un pesce fuor d’acqua che sa di esserlo e se ne diverte pure, Bill Murray si è costruito nel corso degli ultimi anni una delle maschere più riconoscibili della scena indie americana. Da quando cioè Wes Anderson per primo, e a seguire Jim Jarmusch e Sofia Coppola, ne hanno fatto un totem dello spaesamento e della crisi d’identità, ruolo che l’ex acchiappafantasmi è stato ben felice di cucirsi addosso, pronto per essere contattato da ogni produzione, indipendente ma non troppo, che volesse lavorare su una figura maschile sarcastica ma in confusa difficoltà esistenziale. Come fosse ancora e ancora una volta quel giorno della marmotta, nel quale cercare di ritrovare un senso alla vita al di fuori degli egoismi e del brutto carattere. Ma come ogni ripetizione anche questo trend porta con sé esiti positivi ed altri negativi. Perché se film come Lost in Translation riescono a superare la maniera del momento lavorando con intelligenza su una figura consapevolmente iconica ma non sufficiente nella sua maschera, opere come questo Rock the Kasbah si accontentano invece di nascere e morire nel personaggio Murray, sempre coinvolgente nella sua grande portata comica ma impiegato con il pilota automatico all’interno di una cornice semplicistica e meramente funzionale.
Portando all’eccesso il senso di spaesamento di cui sopra, il film diretto da Barry Levinson si rifà ad una storia vera già raccontata in Afghan Star, documentario Sundance che ricostruisce la partecipazione di quattro giovani cantanti all’omonimo talent show. Protagonista principale del doc di Havana Marking è la ventenne Setara Hussainzada, diventata suo malgrado famosa per le costanti minacce di morte ricevute in seguito ad una sua esibizione al programma.
Pur riscrivendone la storia Rock the Kasbah evita in realtà di affrontare l’argomento di Setara e della sua sfida, di calare il suo gesto di ribellione all’interno di un’analisi se non sociale almeno psicologica; piuttosto il film di Levinson ne sfrutta soltanto lo spunto per imbastire un circo bellico popolato da personaggi fuori dagli schemi, figli di una tradizione altmaniana di satira di guerra che rivela però un fiato cortissimo.
Certo spiccano e divertono il mercenario di Bruce Willis e la prostituta d’alto bordo di Kate Hudson, ma complice anche un Murray totalmente calato nella sua solita maschera si resta sempre dalle parti di un umorismo macchiettistico che del conflitto non decostruisce né irride nulla. Anche Levinson in cabina di regia passa quasi inosservato, se non fosse per i primi venti minuti in Afghanistan nei quali il film ci trasporta attraverso generi diversi con una bellissima e spiazzante nonchalance. Una volta ingranato il racconto infatti la dimensione favolistica prende il sopravvento, e con questa una semplificazione di toni e situazioni che riconduce il film nei binari più sicuri e noiosamente familiari dei buoni sentimenti, della parabola morale di un uomo assetato di soldi e riscatto ma sotto sotto dotato di buon cuore. Tutto lecito per carità, se non fosse per il senso di scorciatoia e la banalità che alimenta e giustifica il tutto. Il risultato è un film che guarda alla satira bellica ma preferisce credersi una favola, veste che sfrutta come scusa per non affrontare criticamente nessuno degli argomenti e dei temi toccati.