E venne il giorno
Ingiustamente ignorato, quello di Shyamalan è un film sfrontatamente naif e fanciullo, teorico ed emozionante, che si consegna allo spettatore con una sincerità contagiosa.
Non dobbiamo stare sotto vento, la tossina è portata dal vento!
Il mostro è (nel)l’aria. E allora come si fa a sfuggire all’invisibile, al vento, al male che ci bracca da tutte le traiettorie di sguardo? Accade qualcosa, the happening: molte persone si tolgono inspiegabilmente la vita dal Central Park di New York sino al cuore di Philadelphia, poi via via in provincia e in tutta la costa Est degli Stati Uniti. Terrorismo? Esperimenti nucleari? Invasione aliena? Le ipotesi si rincorrono, ma un dato è certo: c’è qualcosa nell’aria che contagia le persone e le rende zombie incoscienti in preda ad arcaiche pulsioni di morte. Che fare? Si fugge dalle città, naturalmente…. ma il contatto con la campagna sembra acuire questo effetto. Forse si tratta di una tossina sprigionata dalle piante, forse è “un atto della natura che per qualche misterioso motivo è diventata intollerante all’uomo”, come pensa il professore di fisica Elliot Moore (Mark Wahlberg).
Intanto ci si muove. Dopo The Village e Lady in the Water il cinema sempre più naif di M. Night Shyamalan scatena qui il casus belli definitivo che segna una rumorosa rottura con la critica di tutto il mondo. E venne il giorno è un film rigettato, ridicolizzato, candidato a più razzie award, in parte disconosciuto dalla sua stessa star principale (Wahlberg, che parlò di «bad movie»), insomma il film che ha incrinato per molto tempo i rapporti del regista con il grande pubblico (fino al meritatissimo split al box office di quest’anno). Un disastro? Si, ma… rimane un film sublime. Il coraggioso rilancio di un granitico e preziosissimo percorso d’autore: la casa fantasmatica de Il sesto senso, la fattoria aliena di Signs, il bosco isolato di The Village, il condominio favolistico di Lady in the Water, diventano qui l’intero Mondo. Lo spazio chiuso che da sempre imprigiona i protagonisti di Shyamalan diventa qui un totale sconfinato che non ammette più controcampi: i fantasmi del passato o i lupi mannari del presente siamo diventati noi. Ma se siamo noi stessi che inspiegabilmente ci facciamo del male, come ri-creare un controcampo che ci redima?
Shyamalan si rifugia nell’origine (dell’immagine). Le sue inquadrature assorbono tutti i fuori campo perturbanti della storia del cinema – dall’enorme debito con Hitchcock e Spielberg, sino agli echi di Corman e Tourneur, passando ovviamente per i morti viventi di Romero – tendendo però nel nuovo millennio a una sacrosanta ecologia dello sguardo. Una tensione quasi lumièiriana (di elementare frontalità) permea tutto il film e culmina nel bellissimo finale: ci si salva solo in due, distogliendo lo sguardo dalla paura e dislocandolo nel puro contatto emotivo. Elliot e Alma escono dai rispettivi rifugi (emotivi), affrontano l’immagine e i pericoli a essa connessi, si guardano negli occhi e si danno la mano (curiosa assonanza con il finale del bellissimo Hereafter di Clint Eastwood), sfidando definitivamente la morte. E quel contatto, invisibile a qualsiasi dispositivo di visione, è un atto di fede: è il cinema. Ossia l’unica immagine-in-movimento contemporanea a non essere virale, a non essere schiava del dato, nutrendosi invece dell’invisibile per creare ancora raccordi e dialettica. Shyamalan reincanta l’atto del guardare con una purezza registica che ricorda quasi Frank Capra nel suo manifesto intento etico, ma nel contempo restituisce all’immagine ogni potenza perturbante e allegorica in grado di “raccontare” la nostra contemporaneità (l’11 settembre, il terrorismo internazionale, le fobie dei dispositivi di controllo, i muri, le intolleranze, insomma in quell’aria pericolosa aleggiano tutti i nostri traumi innominati). Un film sfrontatamente naif e fanciullo, teorico ed emozionante, essenziale e rigenerante, che si consegna allo spettatore con una sincerità (quella sì!) davvero contagiosa.