Presentata in anteprima mondiale al Festival di Roma come film d’apertura della sezione CinemaXXI, la nuova opera del regista sperimentale americano Amos Poe, A Walk in the Park, racconta la vita di Brian Fass come se fosse una sorta di diario filmato, una confessione a cuore aperto registrata direttamente davanti alla macchina da presa. L’uomo in grave difficoltà economica, depresso e con seri problemi di salute, ricorda il suo passato, l’infanzia, il rapporto con i genitori – e più specificatamente con la madre – il fratello , gli amori mancati, i progetti sfumati, le durezze della vita quotidiana. E lo fa affidandosi in primo luogo alla sua voce, e poi a materiali d’archivio, filmini amatoriali, sequenze di film, citazioni letterarie, interviste a passanti e alle (poche) persone che gli sono vicine.
Poe intreccia le fonti e i supporti, gioca con le immagini, lavora sul confine tra documentario e finzione senza approdare mai né all’uno né all’altro. Il risultato è un’opera stimolante e – soprattutto all’inizio – convincente, che mette in scena l’esistenza di un uomo passando continuamente dall’interno all’esterno, dalla mente al corpo, dai pensieri, i ricordi, gli incubi, alle ferite, alla pesantezza materica dei gesti e delle azioni. Un flusso temporale continuo, un’intera vita consumata (quasi tutta) nell’arco di novanta minuti. Come fosse una nuova nascita, il protagonista sembra viaggiare a ritroso sin quasi dentro il grembo materno alla ricerca di risposte, soluzioni che gli possano permettere di uscire dall’empasse, di riprendere in mano la propria vita, magari anche solo per fare una passeggiata nel parco. Peccato che le buone idee iniziali vengano ben presto abbandonate dal regista, il quale dopo circa un terzo sembra perdere le coordinate tra soluzioni ricercate e vezzi avanguardistici che appesantiscono il film. Proprio come l’Alice di Lewis Carrol citata nell’incipit, Poe si smarrisce non riuscendo più fino alla fine a rimettersi sul tracciato che così bene aveva segnato nelle battute iniziali. L’impressione che si ha alla fine della proiezione è di aver assistito ad un film squilibrato e irrisolto che vive di scarti, improvvise accensioni, aperture, sublimi vertigini e rovinose cadute, e forse proprio per questo programmaticamente destinato all’incompletezza. Un’opera bigger than life che solo a tratti riesce a restituire sullo schermo tutto il mistero e l’angoscia di un’esistenza carica di dolore e di traumi irrisolti.