Non poteva essere altrimenti. Al momento del suo ritorno sugli schermi, un cinema liminare e residuale come quello di Walter Hill non poteva che fondersi, finalmente, con il peso e il corpo di Sylvester Stallone, la cui costante lotta contro il tempo è la concretizzazione ideale di quel che il cinema di Hill può ancora significare oggi. A 10 anni di distanza dallo schermo – a parte la relative parentesi con la miniserie Broken Trail – Hill incontra un corpo teso e muscolare che nei suoi pieni sessantasei anni mantiene una costante tensione di lotta, una volontà di resistenza. Esponente di un cinema in via di estinzione già negli anni ’80, Hill è sempre stato animato da una poetica nostalgica e crepuscolare, violenta e solitaria, ma di tale carico esistenziale poco ritorna in Bullet to the Head, presentato ieri sera in una stracolma Sinopoli.
L’anteprima mondiale di uno dei film di punta di questo festival è stata l’occasione per premiare il grande regista americano con il Maverick Director Award, premio creato quest’anno dalla dirigenza Muller per segnalare i “protagonisti del cinema contemporaneo fuori dal gregge”. Tratto dalla graphic novel criminale Du plomb dansa la tete, scritta da Matz e illustrata da Colin Wilson, Bullet to the Head recupera in pieno le tematiche dell’Hill di 48 ore e Danko, il buddy movie d’azione incentrato su di una coppia antitetica costretta a collaborare, due visioni del mondo opposte che nella loro forzata interazione imparano ad apprezzarsi a vicenda senza però annullare per questo il loro conflitto morale. Sceneggiato dal nostrano Alessandro Camon, il film permette così il ritorno di uno dei suoi massimi autori ad un filone fattosi negli anni sempre più stantio e logoro.
Bullet to the Head appare fin da subito e senza sconti quel che il pubblico si aspettava, ovvero un buddy movie che tra ironia e azione riporti alla mente le gioie cinefile del miglior cinema d’azione anni ’80. E’ evidentemente un punto di incontro il film, un lavoro svolto a sei mani in cui all’adattamento di Camon e allo stile di Hill si aggiunge con forza il peso autoriale di Stallone, che segna con la sua presenza un’altra tappa di quel nostalgico ritorno al corpo fisico e alla “purezza” analogica di un cinema fatto solo di sangue e ossa e tendini. Una fedeltà al classico che ben si sposa con un film di genere che senza velleità autoriale alcuna ha l’unico scopo di divertire e colpire duro.
Come s’è detto Bullet to the Head è un incontro tra due massime personalità del cinema americano, e se il confronto è stato evidentemente proficuo per la nascita di un buon film è altrettanto lampante però come i due non ne siano usciti allo stesso modo. Detto e ridetto, Walter Hill è uno dei ultimi cantori di un cinema moderno anacronisticamente rivolto alla classicità, e da questa tensione nostalgica ne discende un certo tipo di messa in scena che però in Bullet to the Head appare solo di rado e di sfuggita. In quest’ultima fatica infatti Hill ha voluto recuperare quell’accezione più moderna e giovanile che già aveva animato i suoi ultimi, incerti lavori: montaggio serrato, zoom e movimenti di macchina improvvisi, costanti piani ristretti e inquadrate molto brevi ne fanno un film più dinamico e scattante che quando va bene ricorda vagamente un Tony Scott (anche se non se ne sentiva proprio il bisogno) e quando va male appare invece omologato ai nuovi assetti dell’immagine violenta hollywoodiana. Sicuramente al suo attivo rimane la capacità di mettere al centro della scena il corpo, nutrendosene avidamente, o la navigata classe del maestro con cui conduce una narrazione stra-classica nella sua voce narrante di impianto hard-boiled, o ancora la raffinatezza di certe soluzioni di montaggio e l’andamento nervoso come un blues elettrico che soggiace al tutto, ma resta il fatto che da un artista della forma come Hill ci si sarebbe aspettato qualcosa di diverso sul piano visivo.
Ad uscirne invece totalmente vincitore è proprio Stallone, che assieme a Sung Kang condisce il film di un’ironia irresistibile. Infinite sono le battute iconiche servite a Stallone da un copione che gli offre con il personaggio di Jimmy Bobo di tornare in modo molto più compiuto e soddisfacente alle atmosfere più sfacciate e ironiche degli eighties. Rispetto soprattutto al secondo capitolo de I mercenari, qui siamo di fronte ad un umorismo mai ammiccante, nato piuttosto da un’estrema consapevolezza del genere e dalla voglia di tornare in gioco per davvero, senza alcun intento parodico ma neanche prendendosi troppo sul serio.