
Tra l’omaggio autoriale alla città portoghese di Guimarães (Centro Historico), il ritorno sperimentale di uno degli esponenti della No Wave Cinema (Amos Poe e il suo A Walk in the Park), l’apertura del russo Khudojnazarov (Aspettando il mare) e il primo assaggio di concorso con il grande Takashi Miike (Il canone del male), la prima giornata di questo festival capitolino è apparsa fortemente marcata dalla nuova direzione Müller, che pur con risultati altalenanti presenta fin da subito il suo ”cinema espanso”. A dominare la serata di ieri c’è stata invece la proiezione di Mental, film fuori concorso che si riallaccia bene alla tradizione festaiola e popolare delle precedenti edizioni, ma lo fa nel senso migliore. Il nuovo lavoro dell’australiano P. J. Hogan è infatti una commedia straordinariamente amabile che nel suo umorismo dolceamaro e nel carisma dei suoi personaggi è perfetta per essere accolta con clamore dalle grandi platee, specie di un festival come questo.
Parziale autobiografia dell’autore, Mental è la storia di una famiglia un po’ particolare, i Moonchmore di Dolphin Heads. Padre sindaco vicino a nuove elezioni, madre casalinga, cinque figlie tra i dodici e i sedici anni circa, i Moonchmore hanno la peculiarità di essere una famiglia di pazzi, o almeno così credono. C’è infatti chi sente le voci, chi tenta il suicidio gettandosi dal bancone, chi cerca i sintomi del proprio autismo su internet, mentre la madre Shirley, effettivamente sull’orlo dell’esaurimento nervoso, esce la mattina a cantare in giardino i brani di Tutti assieme appassionatamente, andando così a compensare quell’unione famigliare che l’egoismo e i costanti tradimenti del marito Barry le rendono impossibile. Per non farsi danneggiare la carriera politica, Barry decide quindi di affidare la cura delle sue cinque figlie ad un’autostoppista di passaggio, la svitata Shaz (giustamente impersonata da Toni “Tara” Collette), che accompagnata da un lungo coltello, una massiccia quantità di erba ed un cane di nome “Ripper” finirà per ristabilire una parvenza di ordine nella famiglia disastrata. Forse.
Condito da una fotografia pop fatta di colori sgargianti e forti accostamenti cromatici, Mental appare come un folle frullato australiano di tre film, Mary Poppins, Qualcuno volò sul nido del cuculo e il nostrano Speriamo che sia femmina, nel suo riuscire a calare una riflessione sul rapporto normalità-follia all’interno di un contesto famigliare post-maschile, senza comunque abbandonare i toni sarcastici di una commedia che cerca di essere cattiva senza arrivare mai al cinismo e al distacco. In questo senso P. J. Hogan si rivela molto bravo nel riuscire ad alternare ed equilibrare i vari registri, ottimo nella gestione dei tempi comici ma anche nell’intromissione sotterranea e spiazzante della morte, in pieno stile monicelliano. Del resto la demolizione della figura paterna – e dell’universo maschile tutto –, a cui la femminilità di Shaz e delle ragazze riescono a rispondere con una nuova unità tutta al femminile ci ricorda fortemente la famiglia toscana di Speriamo che sia femmina.
Un forte contribuito alla riuscita di questo affascinante affresco famigliare è da attribuire tanto alla prova di Toni Collette (e Liev Schieber, che in pochi minuti ci ricorda quale grande attore sia) che al lavoro di casting e direzione fatto con le giovani interpreti Moonchmore, che riescono bene a far passare tra una risata e l’altra il senso di inadeguatezza e di isolata alienazione nel quale si sentono tutte precipitare. In Mental quella che pare come malattia mentale è infatti un disagio emotivo che nasce dagli altri, dalle loro azioni o mancanze. Pur con il tono leggero della commedia Hogan ripresenta il mantra sartriano per cui “l’inferno sono gli altri”, additando la colpa dell’insorgere del disagio all’isolamento e alla pressione sociale applicata da chi scambia il conformismo per normalità. Gli stessi soggetti che poi spesso, come illustra spassionatamente Shaz, nascondono dentro di loro i germi di ossessioni tenute a stento sotto controllo.