Francia, fine anni ’50. Rose Pamphyle è una giovanissima ragazza di paese che, decisa a sfuggire il destino che il padre commerciante ha pensato per lei, risponde ad un annuncio di lavoro per un posto di segretaria. Rose è molto carina, ma a suo svantaggio ha una massiccia dose di goffaggine e di sbadataggine. Ciononostante, Louis, il datore di lavoro, decide di assumerla incantato dal suo unico talento: l’incredibile velocità nel battere a macchina. Inizia così un connubio lavorativo – che sfocia senza sorpresa in un rapporto sentimentale – tra Rose e Louis, sempre più intenzionato a fare della ragazza la nuova campionessa nazionale prima, mondiale poi, dei campionati di velocità dattilografica.
L’esordiente regista francese Régis Roinsard tinge di rosa, con questo suo Populaire (Tutti pazzi per Rose), la sezione Fuori Concorso del Festival di Roma. Quella da lui presentata è una vivace commedia sentimentale che avanza con brio e leggerezza, una pellicola che delizia la vista per la brillantezza dei suoi contorni e che lascia lo spettatore lieto e quasi alleggerito per almeno 5 minuti dopo la sua visione. Come la maggior parte delle commedie però, il ritmo serrato dell’inizio subisce delle smagliature nell’ultima mezz’ora dell’opera, ma c’è da dire che questo non intacca poi molto l’andamento generale del film. Quello compiuto da Roinsard e dai suoi collaboratori è però, prima di tutto, un minuzioso lavoro di rivisitazione di un’epoca passata. Complici i meravigliosi costumi e le dettagliate scenografie, in Populaire sembra avere il ruolo da protagonista quel periodo post-bellico nel quale si tenta di reagire con spensieratezza al dramma passato da poco. Ecco dunque sfilare davanti la macchina da presa tutta una serie di abiti, di automobili e di interni che ci riportano agli anni delle pin-up. Ma il film ci ricorda anche che c’era ben altro in quel periodo come, ad esempio, una serie di convenzioni sociali che limitavano fortemente la libertà dell’individuo. Rose (e non c’è bisogno di essere donna o femminista per capirlo) può diventare quel che diventerà solo perché protetta e guidata da un uomo. Che sia il padre, Louis, o il giovane rampollo della ditta di macchine da scrivere, il suo operato è ammissibile agli occhi della società proprio perché ella non è mai la prima attrice, ma è sempre la coprotagonista di una vita tracciata per lei da altri.
In questo ed in altri aspetti sono visibili dei rimandi (forse degli omaggi) di Roinsard al cinema di Hitchcock. La donna concepita primariamente come oggetto di sguardo dell’ottica maschile, la dinamica edipica che guida i rapporti del personaggio femminile, la contrapposizione (che poi qui si rivela inesistente) tra bionda protagonista e mora coprotagonista, fino ad arrivare a delle vere e proprie citazioni. I più attenti si accorgeranno infatti del palese richiamo di Vertigo, di quel bacio in hotel tra James Stewart e Kim Novak illuminati dal neon dell’insegna, che viene qui riportato in vita attraverso le figure di Romain Duris e di Déborah François (entrambi ottimi interpreti). Quella di Roinsard è, insomma, un’opera prima che, pur nella semplice linearità del prodotto finale, è invece costituita da una successione di strati e di fasi lavorative pensate e concepite con profonda attenzione. Il risultato è quindi un film fresco e godibile, che ad alcuni farà storcere il naso per la scontatezza della vicenda, ma che ad altri farà sorridere per la delizia delle immagini e per la nostalgia nata dalla loro visione.