Random Acts, ossia atti accidentali, gesti compiuti un po’ per caso, senza una motivazione particolare. Titolo davvero emblematico per un collettivo di corti d’autore che più sperimentali non si può, corpi filmici lanciati nel vuoto come razzi privi di controllo, senza una meta specifica o tantomeno una finalità prestabilita. Il loro fine è ondivago proprio come la loro essenza, l’effetto che possono sortire sul pubblico assolutamente imprevedibile. Il raggio d’azione, per così dire, va in questo caso dall’entusiasmo incuriosito alla perplessità, dalla voglia malsana e crudele di tirare qualcosa di contundente contro lo schermo all’indifferenza pressoché totale.
Venticinque artisti di estrazioni diverse, sia in termini artistici che di nazionalità, svariati background che prendono, com’è logico che sia, direzioni diversissime poi accorpate a tavolino in flusso unico di brevissimi film, rigorosamente della durata di 3 minuti ciascuno: il tempo di un suggerimento, di un’ingiunzione, di un sussulto. Nulla di più, nulla di meno. Un filo conduttore però c’è, seppur generico e flebile, tant’è che ogni artista l’ha declinato a modo suo fin quasi a snaturarlo e a renderlo poco riconoscibile: è la tv, intesa sia come destinazione primaria per la quale questi corti sono stati realizzati sia come fulcro tematico, come snodo e mezzo comunicativo dal quale non si può in alcun modo prescindere per arrivare a carpire quei continui fenomeni di ri-mediazione e ripensamento degli immaginari che da ogni parte ci sommergono e che il più delle volte ci vedono subalterni, passivi contenitori col capo chino.
In tal senso, un insieme di cortometraggi così ambizioso e artistico, nel senso più alto del termine, mira in qualche modo a rieducare lo spettatore, anche e soprattutto quello medio e generalmente più pigro, a indurlo a scardinare gli scenari conformati del fluire di immagini cui egli è quotidianamente abituato alludendo chiaramente a quell’altro, misterioso e ancora inesplorato, che alberga dall’altra parte della barricata. Quella parte dove si annidano la bellezza, l’ignoto, il fascino ibrido e selvaggio che ogni sperimentazione, anche la più ardita e apparentemente masturbatoria, porta con sé: questi gli elementi che Random Acts persegue al massimo grado, perfettamente in linea con quello che poi è lo spirito dichiarato di questa nuova sezione del festival voluta da Muller e denominata CinemaXXI: una sorta di laboratorio, di cantiere non definito che tenda a solleticare l’interesse di un pubblico ben lontano dai canonici diktat cinefili con piccole provocazioni dal peso ben studiato, moderato, non eccessivo ma proporzionato ad hoc. A piccole dosi o a dosi ben equilibrate nel loro progressivo inasprirsi, semmai. Insomma, un vero e proprio maxi-contenitore delle urgenze più solleticanti che animano il sottobosco cerebrale e creativo del cinema contemporaneo, prodotti culturali di un’epoca che si ritrova sempre e comunque a ricostruire sé stessi sugli altari abbattuti del postmoderno, perfettamente conscia del fatto che una radicale e assoluta forma di specifica e personale autonomia formale sia (oggi) in fin dei conti praticamente impossibile.
Partono da un’intuizione i registi coinvolti nel progetto, come d’altronde spesso si fa in corti così striminziti, e la sviluppano in maniera assolutamente autarchica: ne vien fuori un assemblaggio compositivo estremamente molteplice e stracolmo di frastagliature al suo interno, di discrepanze evidentissime di tono, registro, tecniche adottate. Ben poco vi è di effettivo a legare tra loro i singoli lavori, al di là ovviamente della produzione comune che patrocina l’intero progetto e della durata. Per gli amanti della schizofrenia e del piacere della visione quanto più concentrato possibile trattasi dunque di qualcosa di molto interessante, ma in fondo lo è anche nell’ottica di un’ottimizzazione delle energie tutta festivaliera: staccare la spina un attimo e godersi 54’ di viaggi ipercinetici e pregni di filtri, di squarci bislacchi perseguiti nell’arco di un soffio di fiato può essere un esercito liberatorio anche in termini di dispendio mentale e concentrazione, oltre che un modo per aprire svariate “finestrelle” di isolata e in sé compiuta autonomia formale.
Dei 25 autori che compongono il film così come esso è stato presentato al pubblico della settima edizione del Festival del Film di Roma, alcuni sono più noti e più prettamente legati all’ambito dell’universo cinematografico, altri lo sono meno ma non per questo si approcciano con più remissività e insicurezza al mezzo cinema, anzi. Forti della loro più profana (ma mica tanto) formazione, questi autori si assottigliano fino ad entrare a forza dentro il meccanismo, si stilizzano al massimo grado, provano a coglierne l’essenza costitutiva e la funzionalità meccanica dall’interno.
Andando un po’ nella fattispecie dei vari corti che compongono Random Acts, giusto per citare i migliori o più interessanti: Marina Abramovic che regala l’infuocato, brevissimo frammento di alcuni bambini-soldato orientali; David Auster che ricrea l’universo del muto strizzando l’occhio a Jean Vigo ma inserendovi un’esasperazione dell’elemento perturbante attraverso, per esempio, l’associazione straniante di un fallo maschile a una pistola o la raffigurazione della gioia prevaricatrice della donna nel prostrare l’uomo, quasi fossimo in un Eden a totale appannaggio femminile; Mark Wallinger che con spirito warholiano (per altro fischiato in sala, un po’ a ragione) distilla l’inquadratura fissa ed enigmatica di un negozio che si protrae statica e uguale a sé stessa per tutti e tre i minuti senz’alcun cambio di scena; il talentuoso giovane ma già acclamato autore thailandese Apitchapong Weerasethakul che ci regala invece un lampo di adolescenza accucciata e colma di dubbi (vedi foto) con riprese sdrucite, volutamente amatoriali, come a suggerire una distanza artificiale di quel ragazzo da chiunque lo osservi.
Il più esoterico e indecifrabile di tutti è però James Franco: unico piano sequenza avvolgente e ficcante, volteggiante e voluttuoso come un castello onirico, fluido e pronto ad abbracciare gli sfuggenti dettagli scenografici che scorrono in un balzo velocissimo, inafferrabili e impuniti. Il titolo, manco a dirlo, è Dream e a detta di Franco si è cercato di plasmare il brevissimo film in modo autonomo e quanto più malleabile possibile, in un certo senso “come se si trattasse di una scultura”.