Dopo oltre 300 repliche e più di 280 mila spettatori a teatro Alessandro Gassman porta al cinema l’opera Roman e il suo cucciolo, trasferendo l’ambientazione dal palcoscenico alle polverose strade della periferia di Latina. Filmato con un bianco e nero sporco che ricorda quello di L’odio di Mathieu Kassovitz (citato dallo stesso attore e regista durante le interviste), Razzabastarda – presentato nella sezione Prospettive Italia e vincitore di una menzione speciale da parte della Giuria dell’opera prima e seconda – racconta di Roman, rumeno giunto in Italia trent’anni prima che cerca di garantire al figlio Nico (cresciuto senza madre) una vita migliore rispetto alla propria. L’esistenza dell’immigrato rumeno è contraddistinta, infatti, da spaccio di droghe e giri pericolosi e per questo egli teme che il figlio possa crescere in modo sbagliato. Il film mette in scena una realtà controversa, lontana da quella che siamo abituati a vedere in televisione (se non nei casi più sensazionalisti) e adottando la prospettiva dell’altro, interpretato con efficacia dallo stesso Gassman che inoltre esordisce dietro la macchina da presa. L’immagine che ne deriva è senza sconti né edulcorazioni di sorta: al contrario il regista spinge la macchina da presa ai margini della società, registra contraddizioni (il padre oscilla tra dolcezza e violenza), degrado, squallore, senza tuttavia giudicarlo. Perché il cuore del film sta altrove, ovvero nel rapporto tra padre e figlio, tra un uomo adulto che ha commesso tanti errori nella sua vita e quella di un bambino che non deve essere in alcun modo influenzato dall’ambiente che lo ha visto nascere e crescere. La razza bastarda del titolo che è poi quella nomade, è quella da cui in qualche modo Nico dovrebbe staccarsi. Un vero e proprio romanzo di formazione a cui manca però il coraggio di osare a livello narrativo: in diversi momenti così come nella caratterizzazione dei personaggi si ha l’impressione di essere ancora a teatro, come se Gassman non avesse avuto l’ambizione né forse la volontà di andare realmente oltre il contesto dal quale l’opera derivi. Un esordio riuscito a metà a cui manca forse la personalità registica.
Proiettato subito prima Ciro di Sergio Panariello racconta del ragazzo del titolo, che ha 14 anni e vive a Scampia, diviso tra la scuola, la salumeria nella quale lavora e il campetto da calcio dove si allena. 24 ore nella sua difficile vita in qualche modo già segnata dall’ambiente dove è cresciuto. Buon esempio di opera realista Ciro sconta la sua inevitabile prevedibilità di fondo, dovuta al contesto e alla storia che racconta, già troppe volte portate sullo schermo negli ultimi anni. Come sempre per questo tipo di cinema però i meriti e gli intenti superano di gran lunga i limiti.