Difficile trovare un film, almeno tra quelli presentati in concorso all’ottavo Festival del Cinema di Roma, più radicale di Seventh Code di Kiyoshi Kurosawa nel presentare un’immagine finale così lontana da quella iniziale: un pedinamento tra una ragazza innamorata e un distaccato uomo giapponese approda, nell’arco dei sessanta minuti del film, a un vertiginoso dolly a salire su un’autostrada deserta con, in lontananza, due auto che esplodono. E il dolly non si ferma, si volta verso la campagna a destra, abbandona l’esplosione, come se il cinema volesse continuare la sua caccia a nuove storie, nuove immagini. È il nuovo film-laboratorio del regista giapponese che sembra qui divertirsi come mai prima a declinare, in forme leggere e surreali, la sua personalissima visione dei generi cinematografici. Quello di Kiyoshi Kurosawa è uno sguardo che sembra osservare i frammenti del cinema di genere dopo la morte del genere stesso, uno sguardo che sceglie poi con vertiginosa libertà come accostare insieme queste particelle di cinema.
È un discorso teorico evidente fin dall’incipit del film, con il gesto di Akiko, una ragazza giapponese, che segue fino a Vladivostok Matsunaga, un industriale giapponese di cui si è follemente innamorata dopo una cena insieme: appare chiaro come qui non siano in gioco caratteri complessi, sfumati, credibili, ma semplici funzioni narrative, viste e assimilate in centinaia di film differenti. La ragazza in preda alle sue pulsioni più elementari e la freddezza dell’uomo, che sembra aver solo voluto passare del tempo con lei, sono i due tòpoi che il regista decide di mettere a confronto, giocandosi con loro (e con lo spettatore complice) la possibilità di approdare a lidi totalmente inaspettati. Così tra vertiginose fratture narrative (tutta la sequenza in cui Akiko inizia a lavorare in un fast food), svolte verso generi apparentemente inconciliabili (le armi nucleari e lo spionaggio industriale, il videoclip nel prefinale), esplosioni di violenza stilizzata (lo scontro tra Akiko e Matsunaga) assistiamo all’affascinante consapevolezza di quanto il cinema contemporaneo più intelligente debba dare per assodata la morte delle strutture classiche, le ferree logiche di causa ed effetto, i percorsi di crescita, maturazione e “i viaggi dell’eroe”, per realizzare opere felicemente sfilacciate, ibride, prive di regole e figlie indirette delle nuove modalità di fruizione audiovisive istantanee (internet, smartphone, schegge di immagini di ogni tipo). Ma la cosa più esaltante, che marca la vera qualità del film e che potrà infastidire qualcuno, è che Kiyoshi Kurosawa non utilizza la forma eterogenea, sperimentale, godardiana e contaminata che ci si potrebbe aspettare da un simile approccio teorico, bensì quella di un cinema elegantemente classico, con tutti i precetti di invisibilità filmica perfettamente rispettati, con morbidi carrelli e con un grande equilibrio nella composizione del quadro. Come a voler ricondurre un’idea di cinema ferocemente contemporanea nel cuore della classicità filmica.
E ci risulta allora assolutamente coerente la decisione di proiettare, subito prima del film, il cortometraggio Beautiful New Baby Area Project, diretto dallo stesso regista, un folle e irresistibile lavoro sulla disattenzione delle attese spettatoriali riguardo i ruoli di gender (una ragazza debole e indifesa che si rivela una lottatrice implacabile), quasi una cellula filmica sviluppatasi da Seventh Code, un piccolo frammento figlio del film e insieme completamente autonomo. Non è possibile poi non notare la profonda differenza tra il film di Kiyoshi Kurosawa e il Takashi Miike di The Mole Song, dove il regista di Visitor Q ci appare, dietro il consueto divertimento follemente elaborato, curiosamente conservatore, come se per una volta avesse deciso di declinare la sua carica eversiva esclusivamente dentro il recinto rassicurante di un canonico film di gangster, con l’eterno plot del poliziotto infiltrato che deve sgominare un’organizzazione criminale. L’esatto opposto di Seventh Codeche ci sembra qui decisamente più libero e creativo dell’anarchico Takashi Miike. Si potrà obiettare che il film di Kiyoshi Kurosawa sia soltanto un gioco fine a se stesso, un esercizio di stile privo della densità che ha reso grandi i capolavori della sua filmografia: può essere vero ma averne di film così coerentemente folli, così affascinanti nell’equilibrio tra l’estrema libertà del racconto e la magnificamente severa compostezza della forma. Un cinema che ci appare sinceramente e autenticamente privo di regole o sovrastrutture proprio perché non esalta la sua libertà, non ci monta sopra con il gusto per il luna park visivo caro a tanti cineasti contemporanei, ma segue un percorso intimo, selezionando frammenti di generi diversi e divertendosi a incastrarli in un puzzle di grande fascino. Per chi sa accettare le regole del gioco, Seventh Codeè un film davvero imperdibile.