In principio era kwaidan.
Tornano alla mente storie di fantasmi giapponesi che per decenni hanno identificato il cinema come dimora ectoplasmatica per eccellenza: territorio magico, oscuro e tremendo dove l’assenza (tanto del corpo quanto del qui e dell’ora) veniva automaticamente presentificata dall’atto stesso di filmare; una sorta di casa della memoria in grado di resuscitare i morti. La tradizione delle ghost stories si è espansa finendo per impossessare tante altre cinematografie. Ma nel cinema asiatico determinati canoni estetico-formali rimangono tutt’ora una costante, con l’eccezione di alcune – felici – eccezioni (discorso diverso per l’America dove l’horror più maturo non è mai uscito dal meccanismo capitale del Giro di vite di James). Certo, il racconto di fantasmi del cinema asiatico 2.0 non può che venire riformulato e attualizzato, rielaborando il mito dello spettro vendicativo in chiave ora politica, ora metaforica, ora demenziale. Questa tradizione rappresenta ormai un genere a sé, con delle sue regole e un suo determinato orizzonte di aspettative. Ecco allora arrivare a Roma Tales from the Dark, produzione di Hong Kong divisa in sei episodi tratti dalle novelle di Lilian Lee. Se spesso il film collettivo è il terreno d’esordio di giovani talenti, in questo caso, con l’eccezione di Simon Yam, si tratta di tutti registi affermati. Poteva allora rivelarsi un progetto in grado di assicurare una sua omogeneità, un’unità teorico-formale d’intenti, ma purtroppo il film si rivela la semplice somma di sei cortometraggi indipendenti. Il risultato è discontinuo, privo di quella compattezza che sarebbe stata in grado di giustificare – da sola – l’esistenza stessa di un lungometraggio. Ciò che viene a mancare è un collante: quest’assenza finisce inevitabilmente per svalutare anche quelle poche componenti interessanti, lasciando allo spettatore la sensazione di un’esperienza dimenticabile di ben tre ore. L’unica cosa che si può tentare di fare è cercare di riportare il tutto alla singola parte: bisogna scomporre il film, provare a vivisezionarlo, per cogliere le intuizioni di ogni unità (positive o negative che siano).
Pillow – Il cuscino di Gordon Chan indaga la scomparsa di un uomo e lo stato d’animo devastato della sua ragazza. Dopo il set-up introduttivo la verità inizierà ad emergere attraverso flashback e strani sogni. Ci si ritrova in un territorio in cui distinguere il genere dalla sua parodia diviene sempre più ambiguo e difficile: l’uso reiterato degli strumenti classici – dai lenti carrelli ai codici sonori accentuati, dai flash bianchi alla pelle chiara dei fantasmi – non può che portare alla facile risata. Del resto i due generi umorali per eccellenza rimangono il comico e l’horror: se erano ben distanti nel cinema classico appaiono sempre più convergenti nelle derive contemporanee/post-moderne: l’horror imploso è inevitabilmente comico. Sarebbe anche troppo semplice però ipotizzare un progetto o la consapevolezza di un umorismo volontario. Tra dialoghi pessimi e attori imbarazzanti si ride della totale compresenza di orizzonte d’attesa ed evento: tanto memorabili quanto inguardabili, a questo punto, i colori patinati e le sfumature flou del sogno, dove pare realizzarsi un’idea abusatissima di horrorporn: nessuno spazio all’immaginazione, il film vive nella sua stessa eccedenza. Si vede tutto, ma proprio tutto, forse anche di più.
Hide and Seek di Lawrence Lau. Se il cortometraggio precedente rimaneva più ambiguo nella sua dimensione amatoriale, Hide and Seek è molto più lucido ed ironico nella sua dichiarata demenzialità. Qui un gruppo di ragazzi fa incursione nella vecchia scuola prima che venga abbattuta. All’interno dell’edificio si trova un quadro enorme dove sono raffigurati dei bambini che prendono vita ed escono dall’immagine, vagando come fantasmi tra i corridoi e terrorizzando i protagonisti. Ci si ritrova ormai nella parodia della parodia dell’horror, dove non vengono presi di mira solo le situazioni narrative e l’impianto visivo-sonoro del film, ma perfino i protagonisti stessi, che sono degli emeriti idioti (nel loro giocare a nascondino con i fantasmi, nel loro procedere in fila indiana con tutti i bambini-spettro). Dunque non rimane altro da fare che giocare.
Black Umbrella di Teddy Robin Kwan. Bizzarro ibrido di follie splatter (con tanto di citazioni Miikiane) e demenzialità autoreferenziale. Il gusto del disgusto durante la Festa dei Fantasmi Affollati: qui un uomo di mezza età vaga per le strade della città e si ritrova dinanzi esempi di umanità spregevole che tenteranno di rapinarlo, imbrogliarlo e picchiarlo. Nella banalità cocente dell’assunto di base, per cui gli uomini sarebbero molto più crudeli e spaventosi dei fantasmi, il corto è l’ennesimo pastiche di cui non si sentiva il bisogno, tra occhi verdi e pasti di organi.
Stolen Goods di Simon Yam: ovvero l’horror dozzinale ai tempi della crisi economica. Un disoccupato ruba urne funerarie alle famiglie per estorcergli soldi. Un grassone-fantasma continua a ingurgitare cibo mentre ripete “sono pieno”. Macchina a mano, stacchi di montaggio frenetici, codici sonori che finiscono per invadere l’immagine. E mentre si scaricano le ceneri di un morto nella tazza del water, assieme a loro sprofonda anche qualsiasi motivo d’interesse.
A Word in The Palm di Chi Ngai Lee: il migliore dei sei episodi. Si potrebbe affermare che se Pillow e Hide and Seek lavoravano sul territorio di una parodia (più o meno consapevole) qui il registro si sposta drasticamente sul grottesco. Anche dal punto di vista formale e narrativo ci troviamo di fronte al lavoro più interessante (forse anche per merito dell’ottimo cast, forse per una messa in scena più raffinata, forse per un immaginario estremamente più ricco ed eterogeneo). Il protagonista (Tony Leung) è un veggente che vede i fantasmi e si ritrova invischiato in un caso misterioso. Il punto di maggior interesse sta in uno sviluppo che ibrida i meccanismi della love-story adolescenziale e della ghost story: anche i fantasmi hanno amato, o meglio, anche i fantasmi amano. Del resto l’amore è una traccia che può svanire proprio come se si trattasse di un residuo somatico.
Jing Zhe di Fruit Chan. Lontano dall’effetto parodistico dei primi episodi, ma anche da quello grottesco del corto precedente, Jing Zhe ha una regia che alterna momenti affascinanti e ipnotici a sequenze di computer graphica di bassa lega. L’idea della maledizione lanciata dalla vecchia signora, pagata per lanciare sciagure, è intrigante nell’atto rituale ma imbarazzante nella sua manifestazione pratica: si pensi a una versione low budget del primo Final Destination, tra incidenti – a dir poco – rocamboleschi e macchine che volano. Un vero peccato perché l’associazione tra i misteri di un’arte antica e il primo piano dell’anziana protagonista vale tutto il cortometraggio: come a dire, quando degli occhi sono capaci di nascondere interi mondi.