“La speranza è una trappola”, disse Mario Monicelli in una delle sue ultime interviste. E la speranza umana come intima convinzione della bontà, propria e del destino, può rivelarsi l’alibi perfetto per dissociarsi dalle responsabilità. Tratto dalla storia vera di Ernesto Ferretti, l’autista del regista, L’ultima ruota del carro racconta la vita di quello che in narrativa viene descritto come il sempliciotto onesto e perbene che vuole camminare per la sua strada, invece di affannarsi ad arraffare la prima occasione che capita per fare “il salto”, sullo sfondo degli ultimi quarant’anni della storia italiana. I peggiori vizi del paese vengono incarnati di volta in volta dai parenti che sfruttano le conoscenze per una raccomandazione, il potere agognato ed espresso per la pura soddisfazione personale, la furbizia del prendere senza mai dare, il qualunquismo politico. Da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi l’eterno riproporsi delle stesse dinamiche sociali scivolate dallo schermo televisivo in casa.
Giovanni Veronesi si divide fra la commedia veloce con la battuta ad effetto e uno scanzonato impegno aspirante ad un’analisi seria della società: la storia si destreggia fra scene comiche e raccoglimenti riflessivi, ma la sua doppia natura mal amalgama i diversi componenti narrativi. I comprimari del sempre bravo Elio Germano non sono adeguatamente caratterizzati per apparire adatti nelle sequenze in cui la Storia e la riflessione sul paese prendono il sopravvento. Preso come il film divertente che è, L’ultima ruota del carro adempierebbe perfettamente ai propri doveri, ma l’ulteriore riflessione sul comportamento collettivo del popolo italiano esige una ricchezza di spessore che non c’è. Si sa, italiani brava gente, ma siamo sicuri che pensarci buoni ma ingenui abbastanza da far andare al potere persone senza scrupoli possa acquietare la nostra coscienza e soddisfare l’idea di essere dalla parte della ragione? La schiena di Elio Germano/Ernesto Ferretti, storta negli anni dal troppo caricare mobili, avrebbe ben ragione di pretenderlo, ma questo non nega l’amarezza di veder mancare una necessaria presa di coscienza del contributo della propria ignavia, anche giustificata, alla prevaricazione dell’avidità e prepotenza altrui; sostituita, questa consapevolezza, dalla speranza descritta da Monicelli che prende corpo nei momenti di ottimismo, e chiude la strada ad ogni altra ridiscussione delle proprie possibilità di azione. Perché agire, protestare, se in fondo si riesce ad essere felici malgrado la decadenza morale della propria nazione? Se basta la vittoria di una partita o l’abbraccio di una persona cara? Che i potenti rimangano dove sono, tanto si può esser felici con poco.
Quest’invito a dedicarsi solo agli affetti personali distogliendo lo sguardo dal mondo esterno – che al massimo farà capolino dalla tv – così chiaramente espresso nel film di Giovanni Veronesi, e così apprezzato dal pubblico che in sala gli ha riservato un caloroso applauso sembra allora l’unica offerta alternativa al concreto annichilimento sociale; nei fatti è la spia di un possibile abbandono della questione pubblica per rincantucciarsi nelle coperte e nel proprio vittimismo. Panem etc circenses, togliere a poco a poco diritti su diritti in modo da far sembrare quelli rimasti delle preziose concessioni; se un merito L’ultima ruota del carro ce l’ha è quello di suggerire come la presente crisi economica e politica potrebbe essere sopportata dagli italiani: tirando avanti pensando ma non troppo, indignandosi senza esagerare, accontentandosi delle piccoli gioie. Sempre individui, perbene o no; mai popolo.