A Girl Walks Home Alone At Night
Il primo “spaghetti western vampiresco iraniano” è una notevole prova d’autore che guarda ai vampiri per approdare ad una sincera riflessione sull’incontro tra solitudini.
In un’intervista a proposito del suo sorprendente esordio, A Girl Walks Home Alone At Night, la regista iraniano-americana Ana Lily Amirpour confidò di aver cominciato a girare film per farsi degli amici, di essere una persona solitaria che cercava di capire come vivere la propria condizione di essere umano.
Durante le riprese di un cortometraggio aveva indossato per la prima volta il chador, sentendosi immediatamente una strana creatura alata, un pipistrello: nacque così l’idea di un film di vampiri. Il suo struggimento per la solitudine trovò un’improvvisa quanto ideale corrispondenza nel dignitoso isolamento dei succhiasangue, esseri costretti a subire secoli di segregazione naturale, creature che vivono tenebre in cui rare sono le presenze umane e più frequenti le ombre. Entità schiave della propria emofilia compulsiva, vittime proprio perché, fatalmente, irreparabilmente carnefici.
Sola si è spesso sentita Amirpour e solitaria è la sua ragazza-vampiro (semplicemente “the girl”, interpretata da una indecifrabile Sheila Vand) che torna a casa sola, di notte, per le strade di Bad City, patchwork suburbano ordito coi brandelli di un immaginario cinematografico dove rinvengono le suggestioni di note graphic novel, le inquietanti atmosfere delle cittadine lynchiane, le strade senza legge dello (spaghetti) western e del (neo)noir, le sagome scure del cinema espressionista tedesco.
Il suo vampiro rovescia, con quella che potrebbe – forse erroneamente – esser vista come una mossa femminista, l’impostazione classica: è proprio lei, la ragazza che cammina tutta sola, apparentemente indifesa, per le strade di un sobborgo – dove tutti parlano farsi ma che è inequivocabilmente, volutamente, americano per generare un piacevole straniamento – indossando uno strano hijab (termine la cui radice rimanda all’invisibilità, al nascondersi, al celarsi allo sguardo) a rappresentare il pericolo del morso mortale. Si avvicina alle vittime come pipistrello stregato, il volto pallido come la luna e il trucco pesante, i canini aguzzi pronti a mordere il collo amaro dei bassifondi: papponi misogini, padri drogati, miseri reietti. Ma non sempre uccide: a volte segue soltanto, osserva gli umani da lontano, ne spia i movimenti, imita i gesti confidando nel potere occulto del mimetismo, come uno specchio al di là della strada nera, una copia illusoria, un simulacro fantasmatico. Si innamora, persino, del bel Arash (Arash Marandi), un emulo di James Dean vestito per una serata halloweeniana, guarda caso, proprio da principe delle tenebre.
Il flirt col genere vampiresco e con l’horror, l’evidente, compiaciuto pastiche e il citazionismo postmoderno non sono, però, che un punto di partenza, un parco di mezzi generativi d’espressione, una ghiotta occasione per modellare una ricercata coolness pescando in forme narrative ed estetiche conosciute ed apprezzate per farne qualcosa di nuovo. Si gioca qui con quello che Noël Carroll chiama il “paradosso dell’horror”, un paradosso del cuore che ci porta ad essere mentalmente e fisicamente attratti dai mostri, da ciò che ci ripugna e che, anche solo metaforicamente, rigettiamo.
Quello che interessa alla giovane, talentuosa cineasta che potrebbe dirigere il prossimo 007 e che ha da poco lavorato con attori del calibro di Keanu Reaves e Jim Carrey per l’imminente The Bad Batch, sta piuttosto nell’origine stessa del genere, nella poesia sepolcrale e nella “scuola cimiteriale”, nel romanzo gotico inglese e nello Schauerroman tedesco, segni evidenti della necessità della narrazione del fantastico e del mistero di superare la visione del mondo in termini naturalistici tipica dell’illuminismo, a favore piuttosto di una certa fascinazione per il sovrannaturale, di una sensibilità patetica per le tematiche della morte, del sonno e della notte, con spunti di vero e proprio compiacimento macabro in un momento storico in cui le grandi scoperte scientifiche toglievano sempre più spazio all’immaginazione.
Amirpour si gode la delizia di sporgersi su cose misteriose e terrificanti senza mai scivolare nell’abisso dell’horror e nelle gabbie del genere; tiene particolarmente al sentire più profondo, si spinge senza timori fin nelle viscere dove si gonfiano le passioni e il sangue pulsa più forte, senza obbedire ad alcuna logica che si esaurisca in un particolare filone. Lo fa semplicemente con uno stile fortemente personale. Lei che, nata in Inghilterra e trasferitasi ben presto negli States, dice di aver imparato ad essere americana guardando e riguardando il making of di Thriller di Michael Jackson, esempio perfetto di quella fusione tra horror, cinema e musica (Jackson mal sopportava il concetto di video musicale e preferiva parlare, giustamente, di cortometraggi) che ritroviamo, insieme a molto altro, nel suo primo, interessantissimo lavoro. Lei che si rifà ad un substrato culturale multisfaccettato che risente degli anni Ottanta di Madonna, dei Bee Gees e di Lynch ma anche dei contemporanei Die Antwoord (il cui frontman ha ispirato direttamente la fisionomia del personaggio dello spacciatore), di Striking Toughts di Bruce Lee (con la sua self-actualization e il modo quasi “gangheristico” di ottenerla).
Va a cercare la “paura cosmica”, tanto cara a Lovecraft e Poe, ritrovandola nell’angoscia ancestrale per eccellenza – il timore di restare soli; l’intenzione è di per scrutare a fondo le insicurezze umane, suprema manifestazione dell’inconscio relegato negli angoli più bui delle nostre menti, e sfruttarle per reagire con forza visionaria ad una visione “essiccante”, positivista, dell’esistenza. Qualcosa che soltanto gli animi sensibili e tormentati ricercano. Il suo cinema, allora, è una palla da discoteca che come uno zootropio lancia frammenti di luce sulle pareti bianche dove abbiamo già piazzato le facce plastificate dei nostri miti mentre il tempo dell’amore si dilata, riacquisendo magnificamente tutta la sua magia, sulle note dei White Lies (in una delle scene più belle del film). È nelle quattro pareti delle nostre intimità, nelle stanzette dove l’adolescente isolamento del mondo ci permette di essere senza dover apparire per forza. Nella solitudine il cinema si fa, si mostra, diventa esso stesso il mostro, il prodigio portentoso, l’ammonimento. Il cinema è il mostro che vien fuori nel buio della notte e della sala, che, come “la ragazza”, mostra i denti alle sue vittime, a chi nulla ha imparato dalla bellezza propiziatoria dell’arte e si ostina a violentare la vita, ad autocommiserarsi, a reprimere e sopprimere.
L’incanto delle grandi cose è nei piccoli, meravigliosi, sineddotici dettagli: sta in uno splendido b/n che ricorda The Addiction, nella chiusura dei neri e nel respiro della luce accecante che filtra tra le pieghe del corpo sinuoso di una prostituta che balla per il suo cliente; nelle vecchie lenti anamorfiche utilizzate su moderne cineprese digitali (con tanto di coloring successivo) utilizzate dal direttore della fotografia Lyle Vincent; nella danza cheta di corpi che si avvicinano e nella pervicace resistenza dei corpi all’immobilismo che riporta al Buto (il travestito che balla con il palloncino ricorda moltissimo Kazuo Ohno), nell’abbraccio di due mantelli, nell’incontro, meraviglioso e commovente, tra solitudini che si inseguono.