Roma 2015 / Office
Attraverso la negazione del musical, Johnnie To sembra raccontare l'impossibilità di poter anche solo immaginare una passione dirompente che possa liberarci.
Solo un genio come Johnnie To poteva realizzare un musical praticamente immobile, senza colori e senza profondità. Un controsenso, in effetti. Quasi una negazione del genere e dei suoi punti salienti. E pensare che proprio l’autore di Hong Kong sembrava da sempre destinato al musical, con i suoi rallenti, le sue coreografie criminali, le danze e i balli nel palcoscenico della strada, a corteggiar corpi e pallottole, in un unico vertiginoso movimento che ha spesso coinvolto persino il sole, la luna e le nuvole, come nella magnifica sequenza notturna di Vendicami. Insomma, i fan più accaniti e gli spettatori più attenti aspettavano questo momento da anni. Appuntamento ogni volta rinviato, o meglio camuffato da altri codici, da altri immaginari. Eccoci allora a Office, prima, dichiarata incursione nel genere, che però tradisce le aspettative. Chi si attendeva un’esplosione di vitalità si è dovuto presto ricredere, perché il film di To, pur avendo bene in mente i capisaldi del genere nella sua espressione più classica (le dichiarazioni amorose sotto forma di canzoni, il teatro di posa, la dialettica tra realtà e immaginazione) vira ben presto altrove, contaminando il musical con il grigiore dell’ambiente finanziario contemporaneo. Il risultato è un film spiazzante, a tratti respingente, per questo suo continuo negare l’effetto spettacolare, la performance da applausi, il gesto scenico. Verrebbe quasi da pensare ad un film nato controvoglia, girato con il pilota automatico, come un attore che svogliatamente recita il proprio copione mentre nel frattempo immagina di essere altrove, magari a fare qualcosa di più divertente. Perché in fondo non ci si diverte poi tanto in Office, anzi, a dire il vero la confezione nasconde un cuore nerissimo, di tenebra. Naturalmente il cinema rimane fuori da questa visione radicale. Il regista la mette in scena giusto il tempo del film, senza però dimenticare neanche per un momento il piacere che si nasconde dietro il gesto filmico. Perché To è uno dei pochissimi oggi che continua a credere ancora ciecamente nel cinema e nelle immagini, anche quando deve recitare una sorta di de profundis della società globalizzata, come in questo caso. Solo gli ingenui possono pensare davvero che Office si rivolga esclusivamente al paese d’origine (definizione quanto mai ambigua quando si parla di un autore hongkonghese che gira con i capitali della mainland..). E’ vero, soprattutto nella prima parte gli inserti satirici sull’ossessione per il denaro e per l’apparire fanno pensare ad un film quasi intrappolato negli anni Ottanta reaganiani. Come se la Cina vivesse oggi il passato occidentale. Ma gli agganci con la cultura cinese si fermano qui. Il resto invece è assolutamente universale. Pensiamo al modo in cui vengono filmati gli spazi. Basterebbe il titolo, che proprio ad un luogo rimanda: l’ufficio, come nuovo paradigma del lavoro che sostituisce la fabbrica e allo stesso tempo abolisce qualsiasi dialettica tra dentro e fuori, tra spazio privato e luogo pubblico. (che è poi la ragione principale che ha portato al fallimento storico dei sindacati, ma questo è un altro discorso). L’utilizzo del teatro di posa, anziché rinviare ad una sorta di passato virginale del cinema, come i magnifici fondali pittorici di Minnelli o un set di Donen, concorre a creare un effetto asfissiante e astrattivo, senza curarsi minimamente di camuffare/separare gli spazi, tutti uniti nel segno del lavoro che permea ogni cosa, dai mezzi pubblici alle strade, dalle case ai ristoranti. Un unico ufficio dove si lavora h24 senza turni né orari. Il grande orologio al centro della scenografia sta lì a ricordarci la più banale delle equazioni: il tempo è denaro, e dunque appartiene al profitto. Nel mondo messo in scena da To non esiste altro che il lavoro. Persino nelle fantasie musicali, lì dove un tempo gli amanti o i personaggi dei musical si rifugiavano in cerca di conforto. Ecco allora che anche l’amore cambia di segno e diventa un mezzo tra i tanti, un accordo tra le parti, un inganno per far carriera o per salvare la pelle ad un passo dal fallimento. O, nella migliore delle ipotesi, un semplice compromesso che permette di avvicinarsi all’altro senza rinunciare al proprio ruolo e ai propri compiti. I nostalgici del passato e delle vecchie formule soccombono senza scampo. Persino i più giovani, che pure sembrano amarsi disinteressatamente, impareranno presto l’amara lezione. Forse non oggi, troppo impegnati a brindare alle proprie illusorie fortune; e forse neanche domani, quando si salderanno i nuovi equilibri. Ma un giorno sì, quando senza neanche rendersene conto, si ritroveranno a ballare un vecchio adagio per l’ultima volta prima dell’uscita di scena – che coincide sempre con l’inizio di un nuovo ciclo produttivo. Insomma, se è vero che il musical rappresenta più di ogni altro genere l’essenza del cinema, come sintesi di movimento, leggerezza, sogno, possibilità, illusione, fantasia, allora questo film racconta il conflitto esistente tra il cinema e la realtà che viviamo, tra il mondo e le forme che dovrebbero raccontarlo. Un conflitto che in questo caso registra una parziale sconfitta. Quello che sembra dirci Johnnie To attraverso la negazione del musical, è l’impossibilità di poter immaginare una danza sfrenata, una canzone rivelatrice, una passione travolgente che possa liberarci, anche solo momentaneamente, dalla condizione di schiavitù di cui siamo tutti (in)consapevoli vittime.