Trivisa

I nuovi talenti del cinema di Hong Kong realizzano un interessante thriller a tre voci e una nuova rappresentazione del trauma dell'handover

Trivisa è il cinema di genere di Hong Kong che continua a vivere e a reinventarsi con ostinatezza, nonostante la concorrenza spietata da parte della Cina continentale e del mercato internazionale, e di un gusto per il cinema in rapido mutamento. Sotto l’ala produttiva di Johnnie To, tre giovani registi firmano un thriller a sei mani e una nuova riflessione cinematografica su una città la cui esistenza, senza il fantasma della settima arte, sarebbe semplicemente inconcepibile.

Quale modo migliore di festeggiare le due decadi della leggendaria Milkyway Image, la casa di produzione di To e Wai Ka-fai che ha reso possibili molti dei migliori film di genere di questi ultimi vent’anni?

Frank Hui, Jevons Au e Vicky Wong hanno realizzato tre opere indipendenti, poi rielaborate in un unico lungometraggio: tre ritratti di altrettanti, famosi criminali della ex colonia britannica, tre "re dei ladri" che hanno messo a segno colpi leggendari tra gli anni Ottanta e i Novanta.

Kwai è un assassino di poliziotti che vive da anni sotto falsa identità e progetta di rapinare una gioielleria. Cheuk è un criminale eccentrico e vanitoso che vive di estorsioni e rapimenti. Yip è un ex gangster che si è trasferito nella Cina continentale per occuparsi di contrabbando di beni elettronici. Cheuk, accecato dalla propria ambizione, intende allearsi con gli altri due criminali per mettere a segno un ultimo grande colpo prima del passaggio di Hong Kong alla Repubblica Popolare Cinese: dopo l’handover le cose potrebbero farsi molto più difficili.

Come sempre quando si parla di Milkyway, lo spettacolo è di altissima qualità. Le sequenze d’azione sono concepite e coreografate in modo impeccabile, e la ricostruzione storica è solidissima. Per quanto riguarda la struttura narrativa, ciascuna delle tre storie si incastra e rimanda alle altre, ma i tre percorsi sono paralleli e si toccano solo a tratti: l’incontro tra le tre prospettive e le rispettive ambizioni non è destinato a risolversi. I tre re non si incontreranno mai, non consapevolmente.

Trivisa è un film scisso nella storia, ma soprattutto a livello profondo, nelle scelte metodologiche e produttive alla sua base. In questa frattura, attraverso il gioco delle forme cinematografiche, si racconta la storia di un altro incontro mancato, quello tra Hong Kong e la Cina di cui ha rappresentato l’eterno Altro, l’alternativa a margine di Oriente e Occidente. Siamo alla vigilia dell’handover, del ritorno di Hong Kong sotto la sovranità cinese. Il film comincia con la Dichiarazione Congiunta Sino-Britannica del 1984 e finisce con le immagini della cerimonia dell’handover. Cheuk, Yup e Kwai, nonostante la fama e la statura super-omistica, sono smarriti e incapaci di adeguarsi all’inizio di una nuova epoca. Ognuno di loro vive, con il proprio carattere e le proprie contraddizioni, questa disperazione. Sono ribelli senza una causa che vivono nel passato, o che si rivelano incapaci di interpretare i tempi che cambiano. Questa inadeguatezza nei confronti del futuro, più che i tre vizi capitali del buddismo a cui rimanda il titolo internazionale del film, è la prima causa della loro sconfitta.

I tempi cambiano, ma le incomprensioni vecchie di vent’anni e più sono ben lungi dall’essere risolte, come dimostrano le continue frizioni tra Hong Kong, Repubblica Popolare e Taiwan. Il successo al botteghino di film che hanno affrontato la questione, da The Midnight After di Fruit Chan al recente Ten Years (per non parlare del cinema orgogliosamente locale e ai generi "made in Hong Kong", come nel caso di Vulgaria), è indicativo di quanto sia ancora attuale il nodo dell’identità del "porto profumato" della ex colonia.

La suggestione è efficace. Come allegoria politica e ambigua nostalgia per una Hong Kong che non c’è più, fatta di riti, ombre e reperti già lontanissimi, Trivisa funziona. Leggere solo una metafora politica, tuttavia, non renderebbe giustizia all’opera. Trivisa vuole essere, prima di tutto, grande spettacolo e grande cinema di genere. I virtuosismi visivi e le sequenze memorabili non mancano, ma è proprio qui che i limiti di una narrazione ingombrante si fanno sentire. Il meccanismo si inceppa sotto la pressione di tre storie troppo diverse, o troppo dense per essere ridotte a meri episodi: il risultato è un ritmo discontinuo, che penalizza in particolare la parte centrale del film. A salvare Trivisa, nonostante i limiti e la mancanza sentita di una mano esperta al timone, sono i protagonisti complessi e affascinanti, ottimamente interpretati, e un quarto personaggio urbano che non smette mai di sedurre lo spettatore cresciuto tra grattacieli marci e luci al neon.

Autore: Alessandro Gaudiano
Pubblicato il 25/04/2016

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