Quello che non so di lei
Nel film che segna l'incontro tra Olivier Assayas e Roman Polanski l'atto di creazione artistica diventa un gioco pericoloso con la propria metà oscura.
Due donne si trasferiscono per alcuni giorni in una casa di campagna. La prima è un’artista di successo in piena crisi creativa, la seconda una sua ammiratrice, calatasi nel ruolo di infermiera per aiutare la scrittrice in un momento di difficoltà fisica, oltre che artistica. Tra le due evolve un rapporto morboso, nel quale la scrittrice in cerca di materiale si accosta al passato e alla storia dell’altra per studiarla, assorbirla, come un vampiro si nutre di vita e trasforma quella linfa in registrazioni digitali, appunti pronti ad esser messi su carta. Ma forse il parassitismo che lega le due figure è più profondo e determinante, le due donne sono probabilmente una sola donna, incarnazioni psichiche e scissioni della stessa persona.
Difficile che Roman Polanski e Olivier Assayas non abbiano pensato, durante i lavori di Quello che non so di lei, al capolavoro Persona di Ingmar Bergman. Elisabeth Vogler e la giovane infermiera Alma sembrano replicarsi nelle vicende di Delphine e El (Elizabeth, di nuovo), altra coppia al femminile in cui la scissione dell’Io viene messa in scena con un gioco a due. Ma se nel film svedese prendono forma – una forma sperimentale, allucinata, feroce – i quesiti che tormentano Bergman riguardo il rapporto tra l’uomo/artista e il divino, in D’aprés une historie vraie (Da una storia vera, titolo del romanzo originale di Delphine de Vigan) il confronto con il sé riflesso si cala nella cifra digitale del mondo contemporaneo e diventa metafora della creazione artistica, gioco pericoloso condotto tra le pieghe più profonde dell’Io.
Nella prima parte di Quello che non so di lei, quando l’attrazione morbosa tra le due donne non si è ancora trasformata in paranoia allucinata, Delphine ed El (abbreviativo che suona in francese come il pronome personale femminile, elle) intraprendono un gioco delle parti in cui realtà e finzione iniziano a mescolarsi. Le loro identità si fanno più liquide e indefinite, sovrapponibili, come rimarca la scena in cui una soggettiva di El si sostituisce morbidamente a quella di Delphine, mentre entrambe stanno studiando sullo schermo un falso profilo social della scrittrice, oggetto di attacchi da una stalker che forse rientra anch’essa nel balletto delle identità molteplici. Se Bergman in Persona si basava sui volti delle due protagoniste per mettere in scena la dualità dell’Io, l’incontro di Polanski e Assayas lavora quindi sul punto di vista, veicolo di una confusione identitaria rilanciata dai falsi schermi digitali dello sguardo contemporaneo.
Nei suoi momenti migliori l’unione di questi due giganti del cinema europeo regala una sciarada di maschere e generi, si veste da thriller psicologico ma lo fa a carte scoperte, rilanciando la confusione tra diversi statuti di realtà per riflettere un’ossessione verso il reale che è sotterranea e costante in entrambi gli autori. Si pensi all’intrecciarsi di rappresentazioni tra Delphine ed El, in cui la prima assurge al successo raccontando la storia della sua famiglia mentre la seconda è una ghost writer che si nutre di vite altrui per trasformarle in una finzione presunta reale. Dal dentro di una paranoia tutta polanskiana, siamo tra L’uomo nell’ombra e l’ultimo Assayas, di cui ritorna il gioco di coppie e la centralità di due donne, una più giovane dell’altra, una più influente dell’altra, assediate qui da un pubblico affamato di spettri digitali, di stralci di realtà da possedere, conquistare, collezionare (come gli autografi sui libri, che aprono e chiudono circolarmente il film).
Ma a differenza di un possibile De Palma, Quello che non so di lei non è un labirinto di specchi senza via di fuga; la scissione dell’Io dal suo inconscio ribelle, pericoloso, sincero, trova nell’espressione artistica il luogo in cui risolvere le sue contraddizioni. L’atto di scrivere diventa una sfida mortale con i meandri della propria psiche e quindi del proprio passato, ma se si sopravvive al confronto con la metà oscura (quanto King ritorna quando si legano vita e scrittura? Per non parlare degli echi di Misery..) si potrà trovare una via di fuga lungo la quale assimilare il doppio: né fiction né autobiografia, la soluzione si muove liquida tra le due dimensioni, una finzione tratta da una storia vera.