Captive State
A otto anni da "L'alba del Pianeta delle Scimmie", Rupert Wyatt torna alla fantascienza con un progetto personale: invasioni aliene, terrorismo e guerriglia urbana.
In una fase storica in cui per portare al cinema un'opera fantasy a budget medio sembra inevitabile appoggiarsi ad una proprietà culturale preesistente (una saga, un fumetto, un anime), un film come Captive State di Rupert Wyatt ha già vinto in partenza. Se si aggiunge che il film è anche bello, oltre che sostanzialmente più “forte” in ogni sua componente rispetto alla maggior parte dei lavori mainstream visti in questi anni, l'invito alla visione diventa scontato.
Il film di Wyatt è pensato, scritto e diretto con un'ottica popolare-autoriale d'altri tempi. Il pantheon dei Carpenter-Raimi-Romero (e mille altri), sempre citato parlando di autori capaci di portare le proprie visioni personali e sperimentali all'interno di film di genere ultrapop, una volta tanto non è lontano. Captive State è un film da multisala da 30 milioni di budget, guidato nella sua interezza dallo sguardo e dall'idea di cinema di un singolo, determinatissimo autore. Si resta dunque spiazzati nel momento di cercare paragoni con altri sci-fi recenti: Captive State non somiglia a nessuno.
Con un prologo e un montaggio di due minuti sui titoli di testa, Captive State mette insieme le informazioni necessarie a introdurre il suo personale futuro possibile.
A nove anni da un drammatico first contact, una popolazione aliena cinica e spietata ha sottomesso la Terra. L'obiettivo, una volta tanto, non è la distruzione, quanto la colonizzazione. I mostri (sgorbi digitali inquadrati al buio, a nascondere l'impossibilità tecnica di una resa tecnica credibile), una civiltà evidentemente superiore, non vogliono la guerra: hanno posizionato i loro “legislatori” a curare gli interessi dell'umanità, hanno ridotto al minimo il controllo militare e lasciato il mondo in una propagandistica illusione di libertà. Si sono instaurati nel sottosuolo, vicino al centro della Terra, dove risucchiano non precisate risorse naturali necessarie alla loro sussistenza. Tra l'umanità le posizioni sono conflittuali: i governi (rappresentati dallo sfatto e anziano sbirro del controspinaggio, John Goodman) sono legati agli interessi alieni e ne difendono le operazioni. Il popolo (il giovane manovale afroamericano Ashton Sanders) contesta e pianifica guerriglie dal sapore terzomondista. Ma la rivoluzione non è vicina, e la resistenza non può che trasformarsi in terrorismo. Il film seguirà le misteriose operazioni dell'organizzazione Phoenix, decisa a portare l'attacco al cuore dello stato alieno.
Captive State è un film che richiede attenzione. Al contrario degli esempi più ovvi che possano venire facendo il confronto con altri titoli in sala, il lavoro di Wyatt è emotivamente respingente, freddo, complesso e articolato a livello di scrittura. E' un film che costringe il pubblico ad uno sforzo non indifferente (nell'ottica del pop) per afferrare il quadro narrativo d'insieme. Tra i fotogrammi e i primissimi piani della storia principale, Wyatt nasconde un lore-building raffinato e minuzioso. Sono tante le cose che, senza bisogno di spiegazioni o riferimenti metatestuali, ci viene chiesto di assorbire dalle scarnissime inquadrature. Sistemi di controllo biologico, nuove fabbriche digital-manuali, strutture politiche complesse nell'umanità post-contatto si disvelano tra le righe del racconto . Un mondo lontano dal fantasy, e dissimile anche dai più realistici scenari cyberpunk di metà anni '90. Il film è più dalle parti dello “sci-fi imminente” di District 9, o I figli degli uomini: retro-futurismo livido e polveroso, in cui il Domani è appena passato, e l'irruzione del nuovo ha alterato di poco il volto di una realtà in fondo assai concreta.
Ovviamente, un cinema di questo tipo presta per natura il fianco alla metafora, e Captive State non se lo fa ripetere. Le analogie con gli scenari più cupi del presente si affollano: sfruttamento industriale e coloniale, certo, ma in fondo è il concetto stesso di capitalismo, nella sua accezione militarizzata e filo-governativa, a rispecchiarsi nelle dinamiche mostrate dal film: segregazione classista, esaurimento delle risorse naturali, propaganda di Stato e financo un invito alla rivolta armata modello quarant'anni fa.
Eppure, sarebbe ingiusto limitare l'analisi di Captive State alle finezze di scrittura. Il film è tutt'altro che perfetto (fatica a livello di ritmo e si incaglia un po' nel retorico – e prevedibile – finale) ma per lunghi tratti Wyatt fa cinema di grande livello. Al lavoro certosino di regia (gesti e inquadrature che sostituiscono dialoghi e spiegazioni) si aggiunge un connubio montaggio-musica da manuale, a cui è affidata la scansione di spazi e tempi nel racconto collettivo. Il capolavoro del film in questo senso è la lunga parte centrale, praticamente La Battaglia di Algeri con i mostri: ombre, tensione, montaggio incrociato e percussioni elettroniche illustrano il compimento di un attentato dalla preparazione alla messa in atto, praticamente senza parole, attraverso le azioni di un commando di personaggi a noi sconosciuti.
Come in Pontecorvo (ma anche la Bigelow di Detroit è un buon paragone), i singoli volti sono pedine di quello che qui è praticamente il resoconto storico di un'episodio immaginario. Nel dispiegarsi gelido e quasi alienante, lo sviluppo personale dei caratteri è ridotto al minimo, con una sostanziale eccezione. John Goodman nel ruolo del grigio impiegato dei servizi segreti, sovrappeso e stanco, prende dall'inizio il film sotto la sua ala. Un'interpretazione incredibile, tutta sguardi e non detti (l'opposto del mega-acting di cui è specialista), a fare da contraltare allo sconosciuto e neorealista cast di supporto.
Molto difficilmente Captive State sfonderà nell'immediato (il debutto USA ha già visto la stroncatura da parte di critica e pubblico), ma potrebbe anche meritarsi un futuro da cult on demand. Ambizioso e tecnicamente eccellente, senza paura di farsi del male cercando confronti arditi, Rupert Wyatt pennella un mondo nuovo che, una volta tanto, potrebbe anche avere altro da dire.