EROTIC THRILLS - The Big Easy - Brivido seducente
“Fate largo al divertimento”- il motto non scritto della città di New Orleans nel neo-noir di Jim McBride
[Questo articolo fa parte di uno speciale monografico dedicato alla figura eversiva, politica, erotica della femme fatale, nato dalla convinzione che «l’immagine, ancor più se sessuale, è sufficiente a creare una narrazione (dei generi, del pensiero, della cultura, del mercato)». L’immagine crea, e il cinema «fa ancora la differenza», nonostante tanta parte del contemporaneo sia volta oggi alla produzione di immagini-corpo depotenziate, depauperate, inviluppate di teoria e rivendicazione intellettuale desessualizzata. Incentrato sul neo-noir (dal revival postmoderno di Brivido caldo all’eccesso parodico di Sex Crimes), questo speciale nasce come risposta a tale condizione imperante e prende corpo da un testo specifico, Brivido caldo – Una storia contemporanea del neo-noir, di Pier Maria Bocchi. A lui abbiamo chiesto un’introduzione, che potete trovare qui, in cui vengano tracciate le linee guida del nostro lavoro, per una riscoperta del potere eversivo del desiderio].
The Big Easy (“la Grande Città Indulgente”) è il luogo dove tutto è possibile. Non esiste definizione più appropriata di quella messa “nero su bianco” per la prima volta da James Conaway nella sua omonima crime novel e in seguito immortalata sul grande schermo da Jim McBride, per descrivere l’indole mefistofelica e cosmopolita di New Orleans: il cuore pulsante e caotico di un’America che non si può fare a meno di amare; la capitale di quel verace sentimento deep south che, ancora oggi, nonostante l’uragano Katrina, vanta ancora una nutrita schiera di affascinati cantori tra musicisti, romanzieri e registi di successo. Nessuna città americana è paragonabile a New Orleans perché - tra tutte - è quella che più di ogni altra rappresenta le contraddizioni di un paese che sfugge a qualsiasi definizione, come il cinema postmoderno di McBride: un filmmaker indipendente - temerario e spregiudicato - che ha fatto della poliedricità il suo fiore all’occhiello. Ne sono una fulgida testimonianza i suoi lavori fuori dagli schemi come l’acclamato documentario d’esordio (David Holzman’s Diary, 1967), l’audace trasposizione del film manifesto di Godard (“All’ultimo respiro”, 1983), fino ad arrivare all’eccentrica biografia musicale dedicata all’idolo del rock’n’roll Jerry Lee Lewis (Great Balls of Fire, 1989).
Tutte le sue opere sono la sintesi cinematografica del loro decennio di riferimento, fotografato da uno sguardo originale – mai omologato - attraverso il quale il regista newyorkese riesce a mettere in risalto la rappresentazione della realtà che lo circonda filtrata dall’artificio. Ogni volta McBride dimostra di essere sempre disposto a rischiare in prima persona pur di ottenere il risultato prefissato, sfoggiando una delle filmografie più eclettiche e controverse del cinema americano contemporaneo, in una sorta di viaggio infinito alla ricerca di nuovi spazi in cui esprimersi liberamente e di nuovi sfide per cui valga la pena mettersi in gioco. Non fa eccezione l’esotico lungometraggio The Big Easy del 1986: un neo-noir atipico – rispetto ad altre produzione del periodo - in grado di amalgamare – efficacemente - i toni irriverenti e spensierati della screwball comedy a quelli cupi e violenti tipici del thriller metropolitano, grazie a una alternanza puntuale, quasi chirurgica, di azione, ironia, eros e violenza. McBride scommette tutto sull’alchimia dei suoi personaggi, dai protagonisti all’entourage dei comprimari, puntando l’attenzione sulle emozioni forti piuttosto che sulle dinamiche investigative tradizionali, coadiuvato dalla solida sceneggiatura di un veterano del genere poliziesco come David Petrie Jr. (Beverly Hills Cop, Sulle tracce dell’assassino).
Il film si apre con una suggestiva ripresa aerea del bayou di New Orleans - mostrata come un set illuminato in pieno giorno - mentre la band cajun dei Beau Soleil suona in sottofondo Zydeco Gris Gris. Si mette subito in chiaro il ruolo di primo piano giocato dalla capitale della Lousiana all’interno della storia, e più in generale si allarga la riflessione sul genere. Infatti spetta proprio alla “città dai mille volti” il compito di interpretare la parte della femme-fatale senza scrupoli, pronta a indurre in tentazione la macchina da presa, per poi spogliarsi davanti agli occhi degli spettatori; ostentando «una normalità che è direttamente proporzionale alla carica di violenza, alienazione e mostruosità che essa cela» (F. La Polla, 2004). Parliamo - non a caso - della stessa New Orleans lasciva e provocante che porterà alla dannazione, nel gli stessi anni, sia i fratelli protagonisti del Bacio della pantera (1982) di Paul Schrader che il detective interpretato da Mickey Rourke in Ascensore per l’inferno (1987) di Alan Parker.
È questa la seducente cornice all’interno della quale prende corpo – in tutti i sensi - la torbida storia d’amore (e morte) che coinvolge da un lato Remy McSwain - spavaldo poliziotto meticcio dalla dubbia moralità e dall’ego ipertrofico, impersonato metodicamente da un istrionico Dennis Quaid all’apice della forma fisica - e dall’altro un’estroversa ed emancipata Ellen Barkin nelle vesti di Anne Osborne. La donna è un’integerrima assistente del Procuratore Distrettuale – acerba e innocente – costretta dai superiori a indagare su una serie di omicidi di stampo mafioso che coinvolgono McSwin e la sua squadra: una vera e propria “famiglia disfunzionale” composta, tra i tanti, da Nead Beatty e John Goodman.
Tra i due protagonisti, apparentemente agli antipodi, scatta inevitabilmente una scintilla, destinata a divampare ben presto in un incendio che si consuma tra le lenzuola e le aule del tribunale fino a “scottare” entrambi, quando viene messo a repentaglio ciò che hanno di più caro al mondo: la famiglia e l’integrità professionale. I due si amano, si illudono, si affrontano e si riconciliano – a ritmo di musica - in una “danza” frenetica tra le spire di una città sommersa, rischiarata dai neon: dove i concetti di bene e male, bianco e nero, legalità e corruzione si (con)fondono insieme ai personaggi e alle aspirazioni che li animano. Da questo punto di vista McBride è bravissimo a lavorare su un’ambientazione estremamente reale e tangibile, quando l’azione subentra all’indagine tradizionale ma allo stesso tempo completamente stilizzata e surreale – a tratti fumettistica – quando prevale la componente ironica e sensuale. Ciò che distingue il suo approccio da quello di altri registi coevi è sicuramente un’abilità fuori dal comune nel descrivere la carica sovversiva dei corpi, l’erotismo dei luoghi, la fisicità della musica che non è mai un semplice contrappunto extra-diegetico ma parte integrate della trama alla pari del sesso che, seppure esibito, non è mai pura “ostentazione ginnica” ma traduzione di una tensione sessuale che permea ogni inquadratura.
Il mondo tratteggiato da McBride è un universo costellato di outsider, di “ribelli” in fuga da se stessi, di uomini infantili, irresponsabili ma soprattutto incapaci: sia di adeguarsi ai tempi che corrono, sia di tenere il passo con una realtà che non soltanto li bracca senza tregua ma gli si rivolta perennemente contro. Una caratteristica comune anche al personaggio di Quaid: un viveur pieno di sé, talmente abituato ad agire al di fuori delle regole – dipingendosi nelle vesti del “buono” – da non riuscire più a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, al punto da negare l’esistenza stessa di un traffico di tangenti e droga che coinvolge la polizia. Soltanto nel catartico finale dopo essere stato tradito da quello che considera il suo mentore/padrino (Ned Beatty), McSwain riesce finalmente a prendere coscienza di sé, a ripudiare la sua “famiglia” e a trovare il coraggio di riscattarsi agli occhi della sua donna, prendendo le distanze e i provvedimenti necessari per affrontare i suoi colleghi corrotti.
The Big Easy è un neo-noir vitale e suadente che, nonostante il suo approccio informale, riesce a toccare tutte le istanze di cambiamento in atto all’interno del panorama hollywoodiano: la messa in discussione della mascolinità, la crisi dell’istituzione familiare, lo sgretolamento delle identità sessuali. Tuttavia, il suo valore intrinseco non risiede tanto nel come riesce a farlo, ma nel quando: il film esce nelle sale in un periodo storico complesso come la prima metà degli anni ottanta, al culmine dell’era reaganomics, all’interno di un contesto cinematografico in cui vige ormai un clima generale in cui si evidenzia «l’impossibilità di un dialogo sincero tra autore ed epoca di appartenenza» (Bocchi, 2016). È soltanto in questo ottica che è possibile apprezzare il lavoro svolto da McBride, che conferma ancora una volta – al pari di autori del calibro di Carpenter, De Palma, Scorsese - di essere un regista fortemente radicato nel presente, al punto da riuscire a intuirne e talvolta anticiparne idee e ideologie stravolgendole, senza per questo snaturare la propria poetica autoriale.